Come hanno potuto constatare coloro che ne hanno seguito pochi giorni fa la presentazione con l’autore a Pordenonelegge, Per una scuola umana (Itaca, 2023), nonostante il titolo, non è un libro comodo. Rintoccano ad ogni pagina concetti, citazioni, nomi e situazioni che chi si occupa di educazione e insegnamento sente familiari, ma mai scorrono in un accomodante “già saputo”.
Perché la riflessione di Roberto Laffranchini, al suo terzo libro dopo Il rischio della libertà. Un’esperienza di scuola e Si può essere un buon padre?, radicata nell’insegnamento e nel carisma di don Luigi Giussani, fiorisce in un confronto audace e serrato con le principali impostazioni didattiche, pedagogiche ed educative che oggi orbitano attorno al pianeta scuola, e pone a “terreno di gioco” unico e insindacabile la realtà stessa della scuola, che l’autore frequenta da oltre quarant’anni, di cui una trentina come direttore delle scuole (infanzia, elementari e medie) della Fondazione San Benedetto di Lugano e come insegnante al liceo.
Si parla di “Conoscenze e competenze”, come titola la terza delle sei sezioni del libro, ma alla terminologia specialistica se ne sostituisce una trapuntata di colloqui con genitori, di bambini che raccolgono una foglia per analizzarla e ragazzi che studiano Omero, di citazioni di psichiatri, filosofi e scrittori: un vocabolario più penetrante e significativo. Proprio nel capitolo suddetto, Laffranchini parte da un’affermazione di Erwin Straus, “Qualcosa mi accade nel mondo” per cogliere un punto, forse il fondamentale punto di debolezza di metodologie anche “coinvolgenti e partecipative, che pur prevedono laboratori didattici e sperimentazione”: tralasciano “l’esperienza personale nella relazione tra soggetto e realtà”. “Dov’è finita la realtà? Dov’è il mondo della vita?” si chiede analizzando esempi di un altro totem didattico, la “situazione problema”, sia essa il dover trovare un negozio nella propria città (la situazione immaginata dal docente prevede l’uso della tecnologia escludendo astrattamente quanto i ragazzi conoscono dei luoghi che abitano quotidianamente…), oppure il grande problema che improvviso e imprevisto si presenta agli scienziati della NASA, “come si vede in qualche spezzone di film…testimonial di quella operatività in azione che si vorrebbe vincente nella nuova didattica. C’è il problema, bisogna risolverlo, si attivano le competenze”.
Però, osserva l’autore, “la situazione problema diventa qui l’inizio astratto del processo di apprendimento. Non lo era per l’uomo primitivo che già viveva un’esperienza del mondo… e certamente non lo è per gli scienziati della NASA, le cui abilità, che sorprendono tanto chi li vede agire come eroi del cinema, hanno dietro un lungo percorso di studio, di conoscenza, di esperienza. La didattica per problemi è un artificio perché non si inserisce nello sviluppo dei nessi storici ed esistenziali dai quali emerge il soggetto in relazione al mondo”. Laffranchini approfondisce il tema in paragrafi come “Una pedagogia lontana dall’esperienza” e “Un sapere separato dall’esperienza”. Il rischio è “generare una frattura artificiale tra il mondo della vita e il mondo della scuola”.
Ogni tematica, ogni aspetto, è affrontato da una prospettiva ampia e radicale, che sempre converge verso la fondamentale domanda di senso. Anche la richiesta, che tutti considereremmo innocente, di “fornire ai nostri figli un metodo di studio” formulata da tanti genitori, viene sì accolta come importante, ma con un altrettanto importante puntualizzazione: “Non è una procedura da trasmettere, un algoritmo da imparare per risolvere problemi, è un percorso continuo per stare dentro la realtà, cogliendone il significato, incontrandola e scoprendola insieme agli altri… Dipende dalla realtà stessa”.
Affrontando, nella quarta parte, “Il percorso della conoscenza”, l’autore osserva: “invece di chiederci perché bisogna insegnare la matematica, la cultura classica o le scienze, dovremmo chiederci: quando ci interessa sapere?” e introduce il ruolo dell’insegnante. Racconta di una visita a una mostra sui “tagli” di Lucio Fontana, con la guida a illustrare e gli allievi evidentemente annoiati e distratti. Uno di loro, forse per provocazione o per sfogo, le chiede: “Ma a lei questi quadri piacciono?”. “Sembrò che un’onda potente investisse la guida. Arretrò di un passo nell’angolo alle sue spalle”; raccontò di sé, di come studi ed esperienze personali le permettessero di ‘leggere’ quei quadri, scatenando “un dialogo vivace e costruttivo con gi allievi”.
Sorprendono alcuni accenti in cui si articola l’osservazione della libertà richiesta agli allievi: cita John Henry Newman (“Se un uomo prova caldo o freddo, nessuno lo convincerà del contrario facendogli presente che il termometro segna 0° o 30°”) per sottolineare “la necessità di riconoscere il senso profondo della realtà dentro la propria esperienza”. Tanti gli esempi sulla tradizione, sul “ciò che è successo e ciò che succede”; uno per tutti: “Per studiare le scoperte geografiche a nessuno verrebbe in mente di lasciar scoprire l’America agli allievi. Noi sappiamo che l’America c’è. Potrà essere interessante offrire i dati che aveva a disposizione Cristoforo Colombo per elaborare la sua ipotesi, affinché gli allievi scoprano che quell’ipotesi avrebbero potuto formularla loro stessi, rendendosi improvvisamente conto della plausibilità e pertinenza dell’ipotesi del navigatore genovese”.
Per Laffranchini la tradizione “rappresenta il fattore che introduce una prospettiva non assolutizzante e possessiva nel rapporto con il reale”; vale anche per una società sempre più multietnica, con ragazzi che parlano lingue diverse e provengono da realtà culturali distanti, così che possano trovarsi totalmente impreparati a seguire una guida tra i mosaici di Monreale. Tuttavia, “in comune abbiamo l’esperienza del mondo, il rapporto con la realtà, l’incontro con l’altro. Il primo passo è l’incontro con l’altro”. Che, nell’esempio della gita a Palermo di quella scuola media, ha significato non forzare i ragazzi a seguire e capire tutto, ma cogliere in loro uno stupore per una bellezza inconsueta, magari la sproporzione davanti al sapere della guida, anche il senso di estraneità, e soprattutto una domanda del perché siano lì partendo dal rapporto di stima verso l’insegnante che ha scelto quei luoghi.
“Che cosa può comunicare l’insegnante?”. L’autore, per rispondere, individua una modalità privilegiata: la narrazione, intesa come il modo con cui “l’insegnante testimonia come sta nel mondo, la relazione che vive con le cose nel mondo della vita, tutte le domande e le speranza che lo animano. E questa prospettiva apre all’allievo la via di una conoscenza amorevole del mondo”. Questo “racconto che nasce nell’incontro con l’altro non sovrappone una parvenza consolatoria alle vicende umane, non copre la realtà, ma la rende più chiara ed evidente”. Parlando, da direttore, a genitori di ragazzi con difficoltà scolastiche anche gravi, si ha un bel dire che “le prestazioni scolastiche non sono l’unico criterio, e nemmeno il più importante”. Una nuova responsabilità e un nuovo impegno, sottolinea l’autore, è non tacere che “ci è data una sola vita e ci sono date le circostanze per viverla e per esserne protagonisti; non c’è altra possibilità per vivere bene che stare alla realtà così come ci si presenta e coglierne il senso”.
Nella sesta e ultima parte, “La libertà”, Laffranchini individua la scuola umana come “una scuola che viva l’apertura al possibile, nell’accoglienza dell’altro e perseguendo gli obiettivi formativi, culturali e sociali che le sono specifici. Il limite è dato dalla realtà”, bisogna educare i giovani “a guardare alla realtà con gli occhi aperti su un oltre possibile che contempli una felicità senza limiti, coerentemente con il desiderio del cuore umano. Ciò non significa coltivare illusioni o un ottimismo vuoto e infondato. Il dato rimane la realtà, che in qualsiasi forma si presenti, costruisce sempre una provocazione ad alzare lo sguardo”.
Non nasconde la possibilità che l’allievo rifiuti la proposta. Provocatoriamente osserva: “Ciò che tutti si attendevano ma non succede, non esiste. Continua a esistere, invece, colui che non ha deciso”; e riferendosi a comportamenti e non solo a impegni di apprendimento, anche il rifiuto “è una provocazione per la libertà degli altri”. Il confronto “è parte del rischio che l’educatore e l’insegnante devono mettere in conto”.
Educatore e insegnante; educare insegnando: i due verbi sono uniti fin dalle prime parti del libro, dove Laffranchini affronta la “struttura umana” dei ragazzi, d’oggi come di sempre. Il loro cuore, le loro paure “di apparire deboli di fronte al proprio cuore nella complessità del vivere quotidiano” e che li portano a “fingere per cercare di ritagliarsi un’identità che, paradossalmente, è determinata dall’essere come tutti. Un fenomeno diventato di massa con la diffusione del social”.
Il risveglio di questo cuore in un incontro vivo, da cui nasce una speranza, che “è sempre una personificazione di un futuro, in cui si accampano uomini, cose e fatti. Se esso non mi comprende, muore la speranza che è in ognuno di noi. Nel futuro c’è sempre qualcosa o qualcuno che ci attende se nel presente non siamo soli, se c’è qualcuno accanto a noi che almeno susciti la nostalgia della speranza possibile”. Può accadere nelle aule, “nel paesaggio dell’educazione”, titolo della seconda parte; e quelle quattro mura non sono un rifugio da una realtà ostile e pericolosa, ma luogo in cui i ragazzi sono invitati a entrare nella realtà da docenti che mostrano loro un rapporto affascinante con essa, ad iniziare da quell’ambito, magari anche piccolo, di reale che è la disciplina che insegnano.
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