Lo ricordo come fosse ieri. Erano gli ultimi anni del secolo scorso ed io ero un docente da poco entrato in ruolo. Una studentessa di primo anno mi fece una confidenza: “Lo sa professore? Il mio ragazzo è così geloso, che non mi lascia portare fuori il cane di sera”. “Lascialo – fu la mia risposta immediata – tanto questa relazione non dura!”. La ragazza reagì con un: “Professore, che me la tira?”, che si potrebbe tradurre: “Mi vuole male?”. Quattro anni dopo, più o meno, la stessa ragazza venne a confidarmi che quella relazione era finita. Come previsto. Ma erano altri tempi: nel secolo scorso non si rischiava ancora la vita. I dati dicono che i femminicidi in Italia sono numericamente cresciuti da dieci anni a questa parte. Ma non è questo il punto che mi interessa. È la reazione di quella ragazza, che viveva da schiava, magari anche soffrendo, ma non aveva maturato una coscienza tale da rischiare di cambiare quella condizione per una vita più libera e autonoma.
Oggi le ragazze che in classe mi informano su come vanno le cose nei rapporti tra i giovani, mi fanno capire che la situazione non è cambiata, anzi è divenuta più paradossale. “Se è geloso vuol dire che ci tiene a me!”, questa è la motivazione per cui una ragazza apprezza e quindi continua a vivere un rapporto che andrebbe chiuso il prima possibile. Ma non basta: ancor più stupefacente è il fenomeno per cui una ragazza definisce un ragazzo “il suo malessere”, che è una visione romantica di un rapporto sballato. Lui, il mio “malessere”, può prendermi e poi lasciarmi e poi rivenirmi a cercare e poi possedermi di nuovo e poi abbandonarmi. E questo è bello e romantico! Informatevi: la pensano proprio così! Poi ci sono quelle che, per dimostrare la propria fedeltà assoluta al proprio “malessere”, si sottopongono al controllo del loro cellulare, quel dispositivo custodito gelosamente con password e schermate di blocco perché non venga controllato dai genitori. Dai genitori no, dal proprio “malessere” sì. Vi sono ragazzi che definiscono la ragazza come la propria “bitch”, così, davanti a tutti, senza che la “bitch” reagisca con una scenata, chiedendo rispetto, il rispetto che si deve a una persona.
Scusate, sarà poco politically correct, ma a me sembra che oltre al “vergognarsi di essere uomo” bisognerebbe cominciare a mettere a tema il “vergognarsi di essere donna”. Vergognarsi, sì, di essere un femminicida, un violento, uno che definisce “bitch” la propria ragazza, un bullo che fa il forte e lo spavaldo e poi se lei lo lascia o palesa una propria volontà di autonomia, va in crisi e si mette a piangere e minaccia di suicidarsi. Ma vergognarsi anche di essere una che si lascia fare tutto, che vive attaccata ad un sogno romantico che in realtà è un vero incubo, che si lascia definire in modo offensivo senza un briciolo di dignità, di amor proprio, di autostima. Il femminicidio si verifica dentro una coppia. Bisogna lavorare sulla coppia.
La società piange lacrime di coccodrillo sulle proprie vittime. Cosa abbiamo insegnato ai giovani? Nelle scuole non si è parlato altro che di contraccezione. Era importante diffondere il più possibile lo slogan: “Fatelo come e con chi vi pare, ma fatelo sicuro!”. Bisognava invece riflettere sul “fatelo!”, sul quando e perché, sul senso profondo di un atto che riguarda il corpo e lo spirito, la dimensione fisica e quella interiore allo stesso tempo. Sarebbe stato un opportuno invito a sapersi conoscere ed autogestirsi, ma soprattutto a conoscere l’altro e a rispettarlo, a prendere il rapporto amoroso per quello che è: una cosa seria, grande, un lavoro su di sé insieme ad un altro, non lo sfruttamento reciproco di due solitudini. Ma una certa ideologia ha combattuto questo livello profondo di riflessione, lo ha deriso, lo ha considerato sorpassato e ha semplificato e rovinato tutto. Risultato? Un deserto per i ragazzi, senza più punti di riferimento, senza guide, senza responsabilità, con una libertà impazzita sulle mani, come inesperti che non hanno la patente, alla guida di una macchina di Formula Uno.
La famiglia sul banco degli imputati… Ma per favore! Ma chi ci crede più? Certi ragionamenti fanno arrossire quando vengono fatti da adulti, tanto sono lontani dalla realtà! La famiglia molto spesso non c’è proprio più, per vari motivi, e nel frattempo un’altra “famiglia”, ben più invasiva di quella del passato, si è imposta. Un tempo c’era il gruppo dei pari, quelli del muretto, il giro di amici. Gruppetti ristretti e facilmente identificabili. Oggi la famiglia vive sui social, ed è immensa, permeante, ti prende il cervello e l’anima, ti modifica, ti seduce, ti impone atteggiamenti e convinzioni assurde (come credete che si propaghino mode come quella del “malessere”?).
I social riempiono gli spazi, il tempo libero dei nostri giovani e noi, poveri illusi o ciechi, conosciamo solo la punta dell’iceberg. La musica che i nostri giovani ascoltano, le canzoni di cui imparano a memoria i testi, che cantano, che ballano, non la conosce nessuno. Che robaccia quella trap, diciamo. Ma se la prendessimo un attimo in considerazione, se leggessimo certi testi, non potremmo che commentare: “Questa è roba da bestie!”. Bene, questa roba bestiale è la compagna normale dei ragazzi, quella che si sparano in cuffia di continuo.
Un esempio voglio farlo. C’è una canzone, Doc 3, che è stata un hit, a noi sconosciuto, neanche un anno fa. Ha ottenuto più di 130 milioni di visualizzazioni (!). Fate un sondaggio nel vostro piccolo e vedrete. La conoscono quasi tutti. Vi invito alla lettura integrale del testo. Io vi citerò solo alcune perle (evitando i passi più esplicitamente pornografici): “Non ce l’ho una tipa (Chiaro), fo-fotto un po’ con chi mi pare/ Ma soltanto un bitch per il Doc è molto limitante/ Si sa, sono un militante, del sesso libero sempre (Ah)/ Baby se sei dilettante, sappi che non è un problema/ Saprò esser delicato massaggiando gambe e schiena […]/ Baby vieni dal Doc/ Se ti annoi in quel locale/ Hai tanta voglia di giocare/ Un vestitino da strappare/ (Stase’) vieni dal Doc…”.
Sono venuto a conoscenza di questa robaccia quando ho scoperto che la conoscevano dei ragazzini di seconda media (!) e la cantavano non solo i maschietti, ma anche le femminucce (!). Ecco allora perché un ragazzetto chiama “bitch” la propria ragazza e perché questa lascia fare e accetta il suo “malessere”, accetta quel ruolo di “bitch”!
A questo punto la domanda è: ci sarà un cambiamento grazie all’educazione sessuale nelle scuole? O alle lezioni sulla Costituzione? O a quelle storiche sul femminismo e sul cammino di emancipazione della donna? O, per restare all’attualità, sulla storia del patriarcato? Ci credete davvero a queste cose che parlano unicamente al cervello? Molti ci credono convinti e dimostrano che c’è in giro un livello di astrazione nel mondo adulto da far paura. Chi ci salverà?
Occorre ripartire dalle fondamenta. Dalla conoscenza del proprio essere, del proprio “funzionamento”, dall’interesse per il proprio io. Occorre ripartire dal valore dell’altro, come occasione di conoscenza di sé. Occorre riprendere sul serio tutto quello che si è obliterato e prendere una posizione decisa nei confronti di chi propaga un disumanesimo di cui è pieno la cultura pervasiva e malata che i nostri ragazzi respirano e assorbono.
L’ideale sarebbe che divenisse affascinante e coinvolgente e compagno di cammino un modello di vivere non solo l’amore, ma tutta la vita, in modo più alto e diverso. Che insegni che amore è dono, rispetto, limite, sacrificio, lavoro su di sé per l’altro e con l’altro. Sarebbe già qualcosa se il mondo adulto imparasse a guardare davvero la realtà, smettendola con le semplificazioni che buttano tutto in caciara, e si facesse un bell’esame di coscienza, andando in cerca, nel grande deserto, di punti di luce che pure ci sono, anche se non adeguatamente valorizzati dai media e dal mainstream.
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