Non credo che, eccetto i diretti interessati (docenti, genitori, ragazzi), molti abbiano in mente che siamo a un punto cruciale dell’anno scolastico: la fine del primo quadrimestre nella stragrande maggioranza delle scuole. Come sempre, è uno snodo di riflessione, di stima del lavoro fatto: si compilano i documenti di valutazione, si fanno le medie dei voti, si giudica il comportamento dei ragazzi e, nel farlo, gli insegnanti pensano un po’ a questa metà d’anno, al percorso compiuto, ai tempi, affrettati o ritardati, che si sono impiegati. Magari nodi che se ne stavano nascosti vengono al pettine, soprattutto in un momento in cui, compilata la valutazione, si aprono le porte (spesso i registri elettronici) alla cosiddetta “utenza” per comunicazioni importanti, spesso liete, talvolta gravi.
Ma il mondo è distratto: due o tre guerre, la solita economia (oggi con l’agricoltura in primo piano), molto sport, e per fortuna andiamo bene nel tennis; l’unica insegnante di cui si parla è in galera in Ungheria e qualcuno ha osservato che una che va in giro in compagnia di agitatori di martelli (“Hammerbande”, si chiama il gruppo) non dovrebbe insegnare.
L’ultima volta che l’opinione pubblica ha sentito parlare diffusamente della scuola è stata in occasione di un femminicidio che, pur non essendo più grave dei troppi episodi del genere che continuano a succedere, ha fatto molto discutere: ci riferiamo all’uccisione di Giulia Cecchettin. Si disse allora che era la scuola a dover porre rimedio, e giù a blaterare di materie come educazione all’affettività, ai sentimenti, alla parità e a seguire un dibattito pubblico allampanato come lo sono sempre più da noi in questi casi.
Come al solito, parlò di scuola chi non ne aveva un’idea: e come al solito, passata l’onda, tutto è finito lì, per fortuna senza che nulla facesse finta di cambiare con il solito cerottino fatto passare come riforma. Era accaduto poco tempo prima con la reintroduzione del voto in educazione civica, altra sciocchezza che ovviamente non ha cambiato nulla, eccetto appesantire il lavoro burocratico delle scuole.
A proposito di questi temi, ad esempio, che vanno dall’educazione affettiva a quella civica, chi ci lavora sa benissimo che le scuole non hanno mai smesso di farle. Appiccicare queste novità dall’esterno significa semplicemente ignorare gli strumenti che la scuola possiede già. Si chiamano materie scolastiche.
Non si comprende, ad esempio, quale strumento migliore possa esserci per educare ad un equilibrio nell’amore tra uomo e donna rispetto al racconto che si fa da decenni a milioni di ragazzi della considerazione che Dante aveva per Beatrice o la poesia stilnovistica per la donna. Il personaggio di Lucia dei Promessi sposi è una figura altamente educativa per le ragazze: dove altro si trova una della loro età che, al cospetto di un violento uomo di potere che la tiene prigioniera perché un suo amico vuole abusare di lei, lo affronta senza paura, riuscendogli a cambiare la testa e il cuore in virtù del suo coraggio? Per non dire dell’educazione alla logica che gli insegnanti di matematica offrono e che serve anche a osservare logicamente il mondo; della potenza antirazzista, rispettosa dell’ambiente ed equilibrata che una media conoscenza scientifica della natura e del corpo consentirebbero ai ragazzi.
Ma questo non è riconosciuto e (tirata d’orecchi) talvolta neppure dai titolari di cattedra, gli insegnanti. Sembra sempre che l’efficacia educativa della scuola sia da un’altra parte, con l’aggiunta di un progetto, un’attività chiamata con orribile parola “extracurricolare”, e con l’aggiunta di aggiunte. E, che si sappia, il PNNR ha calato una cascata di soldi per la progettualità “extracurricolare” delle scuole di proporzioni spaventose e tali da costringere le scuole ad inventare queste attività per non perdere questo fiume di soldi, in realtà uno spreco vergognoso che comporta essenzialmente un aggravio burocratico e di stress infiniti. Si è dovuto addirittura fondare un sito apposta per questa distribuzione: si chiama “Futura, la scuola per l’Italia di domani”, ed è così retorico da far sorridere.
Non pareva così difficile da capire: basterebbe lasciare alla scuola la possibilità di fare il suo mestiere, senza che genitori-dirigenti-giornalisti-psicologi-magistrati ficchino il naso su ogni moscerino fuoriposto che ronza in aula, magari usando tutti quei soldi per elevare un pochino gli stipendi degli insegnanti dalla categoria dei pezzenti.
Certo, anche gli insegnanti devono riappropriarsi della stima di sé stessi e del valore di ciò che insegnano. Bisognerebbe piantarla di insegnare Dante dicendo che era bravo a scrivere terzine in rima, o Petrarca sonetti, o presentare Lucia di Alessandro Manzoni come una contadinotta bigotta perché credeva nella Provvidenza. Questo, certo, è un problema di cultura e formazione, ed è un po’ disperante pensare a quali fonti potremmo attingere dato che oggi gli insegnanti, persino della scuola dell’infanzia, escono già da cinque lunghi anni di università, più una pletora di corsi successivi per punteggi e Dio solo sa che attestazioni e il ginepraio del reclutamento dei nuovi di cui non capisce più niente, neanche chi dovrebbe amministrarli.
Questo è il punto in cui sta la scuola: quando c’è un problema sociale la si chiama in causa, senza sapere che ogni aggiunta al suo lavoro la snatura sempre più e fa scricchiolare un sistema che, per qualche misterioso miracolo (forse solo quello molto italiano che, in fondo, ci si accontenta) persiste a non voler sbriciolarsi del tutto.
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