Che cosa non ha funzionato nell’educazione? Perché tanti giovani non hanno retto all’urto della pandemia e alle restrizioni del lockdown? Perché sono in preoccupante aumento fenomeni di ritiro dalla scuola, crisi di identità, disturbi di apprendimento, alimentari, psichici? Chi ha responsabilità educative non può accontentarsi di facili risposte, illudendosi che tornare a “come era prima” sia sufficiente per ripartire, perché ciò che è stato offerto prima evidentemente non è bastato a fiorire personalità sicure, costruttive, in grado di affrontare le sfide del presente. Una possibile strada per trovare risposte convincenti è rivolgere l’attenzione a chi in circostanze difficili e drammatiche non ha cessato di essere uomo, non ha perso la dignità e la voglia di conoscere, lavorare, costruire, per carpire i segreti di una proposta educativa convincente ed efficace.
In tal senso, preziosissimi sono gli scritti del russo Pavel Florenskij, testimone straordinario di cultura e di fede, arrestato nel 1933, condannato ai lavori forzati dapprima nel Campo siberiano di Skovoridino e in seguito nel tristemente noto gulag delle isole Solovki, fucilato a Leningrado nel 1937 a soli 55 anni. Colpisce, nel leggere le sue lettere alla moglie e ai figli, la sua passione educativa, che fino all’ultimo rimane viva e lucida, segno di un amore ai suoi famigliari e al loro destino che non viene scalfito dalla condizione di sofferenza e bruttura in cui si trova imprigionato. Una pregevole antologia di questi scritti è stata pubblicata nel 2015 da La Scuola, con una utilissima introduzione di Natalino Valentini. Libro che ogni docente o professionista della scuola dovrebbe leggere e meditare, per trovare gli elementi senza dei quali qualsiasi strategia didattica ed educativa, qualsiasi forma organizzativa, qualsiasi riforma, pur utile e urgente, sarebbe inconcludente ai fini di favorire il fiorire della persona.
In primis, coltivare il senso del mistero proprio dell’infanzia, come F. scrive in una lettera alla moglie: “Tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero. Tutto ciò che non ispira questo sentimento, non rientra affatto nell’ambito del mio pensiero, mentre ciò che lo ispira vive nel mio pensiero e prima o poi diventa oggetto di ricerca scientifica. Per questo ti ho scritto a più riprese che non ti devi preoccupare per i bambini e che io ho fiducia in loro: anche in loro, infatti, deve abitare l’istinto del pensiero scientifico, che si basa su questo sentimento di ciò che è misterioso e viene da esso alimentato; è un sentimento inspiegabile, ma che non delude” (p. 71). L’abitudine a vedere le radici delle cose sin da bambino fecondò a detta di F. l’intero suo pensiero determinandone il tratto fondamentale: “la tendenza a muoversi in verticale e lo scarso interesse per l’orizzontale” (p. 56).
Senza questa dimensione verticale, propria dell’infanzia che non si accontenta di accumulare dati (è anti-nozionista per natura), è difficile superare la frantumazione del mondo, la frammentarietà del sapere di cui soffre la scuola, una delle cause del disinteresse di tanti studenti.
Ma come conciliare la tensione al senso e la conoscenza del particolare, il concreto essendo l’unica via di accesso per accedere all’astratto e all’universale? Le riflessioni di F. suggeriscono che non si vince il nozionismo eliminando la nozione, la conoscenza del dato: occorre piuttosto fare esperienza della “gioia del concreto” per muovere l’affezione e l’intelligenza nello studio. “La cultura borghese si sta disgregando perché in essa non c’è un’affermazione chiara, un netto ‘sì’ al mondo. Essa è tutta nel ‘come se’, ‘come se fosse’, l’illusionismo è il suo vizio principale. Quando il soggetto si stacca dall’oggetto e gli si contrappone, tutto diventa convenzionale vuoto, tutto appare un’illusione” (p. 73).
Osservare con i propri studenti un fenomeno e accorgersi che “esso è la scorza di un altro fenomeno più profondo” (p. 63), fare quotidianamente esperienza che “La cosa non è la cosa stessa, ma qualcos’altro che è la cosa” (p. 67) è la strada principale per coltivare il talento dei nostri giovani. Appositamente al singolare, perché c’è innanzitutto un talento, un dono, in ciascuno degli studenti, che è la loro domanda di senso, di cui si deve incaricare la scuola. Ognuno ha sicuramente inclinazioni e capacità differenti che è bene valorizzare e coltivare, come vie di accesso alla conoscenza e alla passione per la realtà, ma questo bisogno fondamentale è il denominatore comune, ciò che caratterizza la persona, e se la proposta didattica non è all’altezza di tale dono, ben presto lo studente se ne disamora e cerca in altro risposte adeguate.
Scrive F. a sua figlia Olija, un po’ in crisi per non riuscire a performare come vorrebbe nello studio della musica: “Io personalmente non credo affatto che quando si studia la musica ci si debba aspettare qualcosa di straordinario. Essa è un elemento assai importante dell’educazione e dell’istruzione, che darà a te stessa e ad altri molti momenti luminosi, ma solo se non ti poni l’obiettivo orgoglioso di diventare musicista e di suonare perfettamente. Quando si impara a leggere e scrivere, non ci si preoccupa del fatto che un dato alunno diventi o no scrittore; no, obbligatorio è l’alfabetismo, essere in grado di leggere libri e di esporre i propri pensieri; se poi, oltre a questo, si manifesta un talento letterario, esso è una specie di appendice gratuita, un premio del destino. Così, anche nella musica, ci vuole l’alfabetismo, la capacità di usare le ricchezze della cultura musicale. Se acquisterai tale capacità in seguito agli studi, credo che l’obiettivo sia conseguito. Qualora poi, al di là dei calcoli, si evidenzi anche il talento, ciò sarà un regalo improvviso ma esigerlo, per sé o da sé, non è una cosa giusta. Cresci, studia, evolviti, impara a partecipare a quanto ha di migliore l’umanità: eccoti l’obiettivo” (p. 95).
Questa prospettiva è liberante sia per chi ha talenti spiccati già in tenera età, che se si assolutizzano possono però distogliere dall’impegno nella formazione di base, cui la scuola è chiamata, o addirittura diventare fonte di ansia a causa della competizione sfrenata e di aspettative angoscianti da parte degli adulti, sia per chi fatica a trovare la sua inclinazione e l’ambito del suo possibile contributo al mondo, che magari si manifesta in età matura. Scrive infatti F., sempre a sua figlia: “la scuola infatti deve dare le linee di base e gli orientamenti del sapere e non un approfondimento, che si consegue invece più tardi, tramite il lavoro autonomo. Ma, assimilare le linee di base è una cosa necessaria, altrimenti l’approfondimento seguirà vie casuali, dilettantesche e se non si conoscono le regioni limitrofe e l’intera mappa del sapere moderno, esso può generare illusioni e vane speranze. Te l’ho già scritto e te lo ripeto: non avere fretta, tutto verrà a suo tempo, cresci serenamente, organicamente, ciò sarà molto più vero di una costrizione spasmodica, soprattutto con una salute debole” (p. 109).
Rendere essenziali gli insegnamenti, fare esperienza dell’universale nel particolare, non assolutizzare un ambito di riuscita, sono suggerimenti ricorrenti nelle lettere del grandissimo F. per educare persone responsabili, solide e libere. Ve ne sono ancora altri preziosissimi sul valore delle singole discipline (soprattutto la lingua, la letteratura, la matematica, la storia, l’arte e la musica), sulla distinzione tra un libro di testo e una lezione, sulla valorizzazione dell’anomalia e dell’eccezione come strade maestre per superare il razionalismo, sulla libertà, sull’amicizia, sulla fede, sul tempo disteso e sulla cura del proprio lavori, necessari a “dare ai pensieri la possibilità di cristallizzarsi” e trovare così sé stessi.
Alla scuola occorrono insomma dei maestri, dei docenti che abbiano il tempo di curare innanzitutto sé stessi, di studiare, di approfondire le tematiche didattiche, educative, esistenziali e non debbano disperdere le proprie energie in questioni meramente burocratiche o organizzative, per ripartire all’altezza del talento dei ragazzi che quotidianamente portano nelle aule il grido del loro struggente bisogno di un significato per cui vivere.
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