“Da oggi ti chiamerai ruotomio (dono di Dio) e sarai padre dei nostri figli. Però stai attento! Perché, per poter essere padre, devi essere prima nostro figlio!”. Inizia con queste parole di una mamma fondatrice della Luigi Giussani High School di Kampala l’avventura in Uganda del professor Matteo Severgnini, insieme a tre ore di festa piene di danze e canti.
Ma quella frase è, in fondo, anche un po’ l’essenza del suo racconto, articolato per rispondere alla domanda da cui il dialogo era partito: “Che cosa permette di essere certi della bontà della strada intrapresa?”. Da dove si può attingere la certezza in un contesto duro come quello dell’Uganda in cui l’imprevisto, l’incalcolabile costituiscono la nota dominante della realtà? Evidentemente, non dalla capacità di previsione, a partire dalla lettura di dati, perché questa operazione, pur utile, rende semmai più efficienti, ma non più certi.
Riprendendo il motto socratico, ispirato da un’esortazione inscritta sul portale del Tempio di Apollo a Delfi, Severgnini ricorda che la certezza può nascere solo da un lavoro serio sulla domanda relativa alla propria identità, cioè sul grande interrogativo: “tu chi sei?”. Tale questione, però, è suggerita e acutizzata in lui anzitutto dal racconto di un’insegnante della sua scuola, prima ancora che dalla figura di Socrate.
Durante il lungo lockdown dovuto all’emergenza Covid, quella docente ha sentito rinascere, proprio dentro di sé, il quesito sulla natura del proprio “io”. Convinta che la propria identità consistesse nell’essere una madre e una docente, la lontananza dall’aula e dalla figlia l’ha costretta a intraprendere un percorso che le ha permesso di constatare che il suo “io” non coincideva con il suo “fare”, ma con il suo “essere”, con il suo irripetibile valore infinito. Ma che cos’è questo essere? In cosa consiste?
Severgnini racconta che, durante il lockdown, insegnanti, preside, vicepreside sono andati a bussare alle porte degli studenti, uno per uno, per ricordare loro che i prof c’erano e che avevano ancora ben presenti i loro ragazzi. Nel corso delle visite, poi, hanno preso nota di tutte le situazioni critiche in cui si sono imbattuti e le hanno fatte presenti a Rose, la direttrice della scuola.
La preoccupazione dei docenti era quella di risolvere tutte le criticità, ma Rose ha ribaltato il loro punto di vista con una provocazione: “Secondo voi, quante scuole sono andate a bussare alla porta dei loro studenti in questo periodo? Dovete capire cosa ha commosso il vostro cuore a muovervi così! Senza questa coscienza, i vostri tentativi saranno aridi, inutili”.
Questo è il punto, dunque: si può essere certi e si possono affrontare insieme i problemi dei nostri studenti solo se si ha coscienza di chi, di continuo, bussa al proprio cuore, perché “il cuore è fatto per essere bussato!”, afferma Severgnini. Chi muove il cuore è parte dell’identità del soggetto, quindi la domanda “io chi sono?” coincide con la domanda “io di chi sono?”. Infatti, ricorda che, nel suo paese della Bergamasca, quando si chiedeva a qualcuno chi fosse, si rispondeva pronunciando i nomi dei propri genitori.
Questo aiuta a comprendere meglio anche la frase enunciata dalle mamme al suo arrivo in Uganda: “per poter essere padre dei nostri figli e delle nostre figlie, devi essere tu prima nostro figlio!”. Solo il rapporto con qualcuno che ti genera rende capaci di generare. Quelle donne, infatti, hanno costruito quella scuola in forza dell’esperienza di amicizia con Rose, che, essendo lei infermiera oltre che direttrice della scuola Luigi Giussani, curandole dall’Hiv attraverso una vicinanza, una condivisione, un rapporto e una comunione, prima ancora che con i farmaci, ha fatto loro riscoprire la loro unicità e il loro profondo valore.
Questa esperienza ha generato in loro il desiderio di mettere in piedi un luogo in cui i loro figli potessero sperimentare la stessa accoglienza e la stessa cura dell’io, la stessa serietà nell’andare a fondo della propria coscienza. Per una ragione di questa ampiezza, queste mamme lavorano ogni giorno: spaccano pietre dietro compenso di pochissimi dollari per finanziare un luogo di “cura” umana, un luogo cioè in cui i loro ragazzi possano accorgersi del grande valore che sono.
Tutto ciò è una novità in Uganda, dove l’educazione è solo orientata alla performance e al risultato, per ottenere il quale i docenti ricorrono anche alla violenza. Molto diverso è, invece, l’approccio della Giussani High School.
Per rendere condivisibile tale novità Severgnini racconta della struttura messa in piedi per reclutare gli insegnanti: tre giorni intensi sia per i reclutatori, sia per gli aspiranti docenti, per definire una rosa di candidati e per avere criteri e materiale concreto per facilitare la scelta. Stupito e sfinito da questo impegno per la selezione, il nuovo insegnante di inglese, poi assunto, gli racconta che il giorno del colloquio era stato per lui il più teso della sua vita e un tale impegno nella selezione non poteva che essere destinato ad alunni provenienti da famiglie appartenenti all’élite del Paese: uno doveva essere, quasi sicuramente, il figlio del presidente.
Una volta iniziata l’avventura educativa in quelle classi si è accorto invece di avere davanti studenti poveri, trattati da tutto il corpo docente come fossero figli di re e di regine. Ha aggiunto, poi, che anche lui si era sentito trattato allo stesso modo e che per questo ringraziava. Questo insegnante, perciò, ha dimostrato una grande apertura nei confronti della realtà che aveva davanti e ne è rimasto profondamente colpito. “Così si scopre l’ideale: lasciando spazio all’ingresso dell’altro”, afferma Severgnini. È questa la chiave per stare di fronte all’incertezza: avere coscienza di chi si è e a che cosa si appartiene.
Si tratta di un valore riconosciuto anche dalle famiglie: di fronte a un crollo nella classifica delle scuole più “performanti”, dopo aver albergato ai vertici negli anni precedenti, davanti alle scuse del preside rivolte alle ‘mamme’ per il calo, una di loro ha inteso replicargli: “Non abbiamo fatto questa scuola per far performare i nostri figli, ma per far scoprire loro il valore infinito che sono. Senza questa scoperta, non performeranno mai, ma poiché questa scoperta sta accadendo in loro, prima poi arriveranno anche a performare!”.
Così ci congeda Severgnini, pronto al rientro in Italia per iniziare una nuova avventura educativa: un cuore amato è inarrestabile, fino a far decidere a delle mamme che spaccano pietre di finanziare una scuola per i loro figli. E queste mamme pronte ormai a lasciarlo tornare in Italia lo hanno così rassicurato: “Vai, non avere paura, perché sei nostro figlio!”.
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