Almeno tre scene sono oscene tra le aberrazioni della scuola di giugno, visibili a occhio nudo per i corridoi e dentro le aule.

La scuola semivuota. I ragazzi si ritirano. Spesso neanche per andare al mare: rimangono a casa, dormendo della grossa e vegetando sui social. È l’idea della libertà come sottrazione anziché moltiplicazione, la fuga della realtà: togliersi davanti le cose, siano esse le interrogazioni o i figli o i problemi, purché ce li togliamo davanti, fino ad azzerare tutto, a farci una bara di vuoto. Chi non viene a giugno non ha un motivo per venirci: non ce l’ha oggi e, a dirla tutta, non l’ha avuto mai. Somiglia a chi frequenta una salumeria, dove compra quello che gli serve e poi va via. Cosa dovrebbe rimanerci a fare? I voti li ho già tutti, cos’altro avrei da spartire con questa gente?



La scuola semipiena, o anche la prostituzione intellettuale. Qualche superstite c’è ancora, agli sgoccioli dell’anno. Sono quelli che in salumeria stanno ancora in fila, che non sono stati ancora serviti. Cosa vuoi, c’erano altri prima di loro. Non possono ritirarsi senza portare il pane a casa. L’8 giugno sono qui perché hanno da aggiustarsi le medie. Siccome all’insegnante risulta sul registro elettronico la media di 8,49, che ogni notte gli tormenta l’anima nel dubbio se potersi legittimamente sbilanciare nientemeno che verso il 9 in pagella o se lasciare prudentemente l’arrotondamento per difetto dell’8, a risolvere il lacerante dilemma sarà una verifica rivelativa. I ragazzi, dal canto loro, smaniano per questi ritocchi, che quasi sempre migliorano il voto ma non il gusto né la fame di conoscenza. E ne discutono con l’insegnante, contrattano. Quanto un chilo di Nietzsche? E mezzo litro di avanguardie? Di Pirandello quanto facciamo? Uno, nessuno o centomila? Due etti, tre etti, Ungaretti. Meglio gli integrali, per tenersi leggeri. Me lo fai a 25 centesimi di voto?



Occorrerebbe mandare all’aria questo mercato dentro il tempio, bandire i simoniaci che fanno compravendita di ciò che intrinsecamente non è un mezzo ma un fine: poesie, pensieri, sculture, eventi storici non possono essere in balia dei mezzi voti e degli arrotondamenti perché sono invece occasioni di conoscenza senza prezzo. Possiamo ammorbarci con tutte le perle di saggezza che ci pare, ma finché le dinamiche scolastiche saranno dominate dalla logica del prezziario e del bilancino, non ci sarà verso di smarcare un contenuto culturale dal suo asservimento nei confronti del risultato e del do ut des. Togli il ricatto e vediamo a quanti importa davvero.



L’imbarazzo. Guarda poi che guaio va a capitare a chi è perseguitato dalla malasorte! C’è l’insegnante che ha diligentemente concluso il giro delle interrogazioni ben 24 ore prima, e il 9 giugno si ritrova inspiegabilmente in classe quattro adolescenti. Cosa diavolo ci son venuti a fare, con questo caldo? Non ce l’hanno una scopamica? Interrogarli no, spiegare figuriamoci… Potrei sfangarla con tre o quattro minuti di chiacchiere vacanti del tipo “dove andate di bello quest’estate?”. Domande di cui, ovviamente, non ci frega assolutamente niente, mai formulate nei giorni degli affanni per il programma, e che ora cadono nella loro bava di retorica, nel loro stagno di inutilità.

Più che una salumeria, viene in mente un ascensore in cui si entra beatamente da soli, e mentre sta per chiudersi spunta un piede che intercetta il sensore, le porte si riaprono e s’intrufola lo sconosciuto. “A che piano va?”. “Diciassettesimo”. Fatteli adesso, diciassette piani con lo sconosciuto. La salita è di una lentezza estenuante, il gelo palpabile, non si sa cosa dire, si guarda per aria. Così è la scuola di giugno, uno sfumato eccessivamente lungo in coda a una canzone, che ti fa scalpitare per saltare alla successiva. Cos’avresti da dirti ancora con l’estraneo in ascensore o col salumiere di cui sei un habitué? Manzoni non è roba per l’estate, della vita non s’è mai fatta menzione e tu per me non esisti, al di là della prestazione richiesta o fornita: gli studi umanistici dovevano umanizzarci, e invece.

Chiudiamola prima del 10 giugno la scuola, molto prima! Eutanasia, per favore. Risparmiamoci la sua metamorfosi in un covo di sfaticati, commedianti e poveracci. È un sogno collettivo, dopotutto: terminato un anno di oppressione, finalmente adesso ci si sentirà più leggeri. In questo caso la scuola non è né salumeria né ascensore: piuttosto è una tazza del cesso, da cui ci si alzerà, cacata l’ultima interrogazione, con un sospiro di sollievo. Quel “posso andare in bagno?” ripetuto ossessivamente nelle ore di lezione trova, al suono dell’ultima campanella, il boato liberatorio del suo plof pacificante.

Non è così che dovrebbe andare. Immaginate, per un attimo: “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”: avere in cuore questa osservazione di Pavese il 10 di giugno. “Trovare l’alba dentro l’imbrunire”: il desiderio, a giugno, di alzarsi presto, di leggere, di scoprire, di incontrarli. Spiegare all’ultima ora dell’ultimo giorno, mentre nei corridoi belano. Leggere Colombo e Gutierrez di Leopardi e sentirsi come naviganti nell’oceano alla ricerca di una terra sconosciuta, in mezzo alla diffidenza generale. Le ultime lezioni, una più bella dell’altra, tenute dai ragazzi, senza il ricatto del voto: solo libri e commozione, angoli d’osservazione inediti, parole che fanno scintille a contatto con le giornate, bagno di realtà nella melma della finzione.

Prendersi il ponte dal 2 al 4 giugno per studiare insieme. E finalmente poter chiedere, concedersi il lusso di capire: argomenti, mondo, se stessi. Recitare il Canto notturno sabato sera alle 23, sopra un terrazzo e sotto la luna piena, con 75 ragazzi. O trentatré canti del Paradiso per un anno intero, una volta alla settimana, con quelli che si sono maturati l’anno scorso e ora non sarebbero più nulla. Alla fine di tutto, o c’è il nulla o c’è il Paradiso, no? Liberi, finalmente liberi. Nella salumeria che ci siamo costruiti noi. O meglio: nel rapporto che abbiamo scoperto frequentando la stessa salumeria. Meglio ancora, nello spazio fuori dalla salumeria, che non sapevamo quanto fosse bello. Forse, più precisamente, nell’esserci accorti che non si trattava di una salumeria, ma del gusto delle cose buone, dello spazio della verità.

Parlare all’infinito delle questioni che ci hanno acceso durante l’anno scolastico, perché infiniti sono i sussulti dell’intelligenza quando la realtà provoca. Scriversi, cercarsi, confrontarsi. Non la rituale pizza di fine anno perché è l’ultima volta che ci vediamo, ma una clandestina, carica di inizi. Non gli scatti, i ringraziamenti, gli auguri strappalacrime pieni di congiuntivi esortativi e di un avvenire disneyano, ma lo struggimento perché io non ti perda, perché non ti perda tu, perché il mondo non spazzi via la promessa che si è accesa in te e possiamo essere insieme per sempre, tesi verso l’oltre. Senza chiudere il cerchio, ma aprendo i cuori, tracciando una retta, una strada. Alle 10 gelato al parco? Ci vediamo domani. Al mare mercoledì o sabato? A luglio in montagna, solo con chi non vuole buttare a mare il suo cuore. “A che piano va?”. “Guarda che abitiamo insieme”. Sarebbe un altro giugno, un’altra scuola, un altro mondo, sarebbe il paradiso. Ed è quello che mi è successo.

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