Nel campo della politica scolastica, ogni attore svolge il proprio ruolo o quello che ritiene tale. Ma proprio per questo non può che suscitare stupore, e anche imbarazzo, leggere le valutazioni formulate in coro dai sindacati sulla bozza di decreto legge sulla scuola.

Certo: il sindacato fa il suo mestiere, che è quello di difendere i lavoratori o coloro che aspirano a diventarlo. Ma lo fa bene quel mestiere? Lo fa, vorremmo dire, anche in vista di una sempre maggiore qualificazione dei futuri insegnanti, tale che – in nome di essa – si possano richiedere stipendi meno esigui degli attuali? È lecito dubitarne.



Purtroppo, quando si arriva all’alternativa che, da almeno cinquant’anni, discrimina le decisioni in questa materia, il sindacato si colloca con decisione sempre dalla stessa parte, che è quella della quantità e non della qualità. La parola d’ordine è sempre: “allargare gli spazi” e “abbassare i requisiti minimi”.



Qualche esempio? La richiesta di ridurre da 7/10 a 6/10 il punteggio minimo per superare la prova concorsuale; ovvero quella di “risolvere il problema dei diplomati magistrali” (che significa immettere nell’insegnamento della scuola primaria e dell’infanzia migliaia di aspiranti sprovvisti di laurea, in nome di pretesi diritti acquisiti vent’anni fa); ovvero ancora quella di prescindere dal titolo di specializzazione per l’accesso ai percorsi abilitanti riservati per il sostegno (con buona pace del diritto degli alunni disabili a ricevere assistenza qualificata); o ancora quella di considerare il servizio comunque prestato senza titolo sul sostegno come valido per la classe di concorso di teorica appartenenza (che vuol dire: non solo consentire a chi non ne ha il titolo di consolidarsi per intanto sul sostegno, ma fornirgli anche il modo per fuggirne prima e più agevolmente, per tornare all’insegnamento disciplinare mai praticato).



Insomma, la direzione è chiara e non è quella del miglioramento dei livelli. E fosse in gioco solo il futuro retributivo di una professione pervicacemente accompagnata verso il baratro di una sempre maggiore dequalificazione, sarebbe già grave, ma riguarderebbe solo i “clienti” del sindacato. Il vero problema è che questa partita si gioca sulla pelle degli studenti e della scuola, cioè dell’intero Paese: che, sia detto per inciso, nessuno si sogna di consultare quando è in gioco il loro destino.

Mentre l’Invalsi e tutte le agenzie, anche internazionali, non cessano di lanciare grida di allarme sulla progressiva discesa agli inferi del nostro sistema-scuola, chi dovrebbe decidere del suo futuro continua a trascurare la leva principale su cui si dovrebbe agire per invertire la tendenza: magari meno insegnanti, ma più preparati. Altro che allargare, fino a cercare di strapparle del tutto, le maglie di sanatorie già fin troppo generose.

In attesa di ripensare in modo serio e complessivo la formazione iniziale e i percorsi abilitanti, servirebbe come minimo essere esigenti con coloro che già oggi premono per entrare, scegliendo quelli almeno comparativamente più qualificati e non solo i più anziani o i più aggressivi nel rivendicare comunque un posto.

Ognuno fa il suo mestiere, o quello che ritiene esserlo, dicevamo all’inizio: e non ci pare che il sindacato, in questa come in altre circostanze, faccia il proprio nel migliore dei modi. Ma vorremmo almeno essere sicuri che, dall’altra parte, il Governo e il Parlamento facessero fino in fondo il proprio: che è quello di tutelare gli interessi presenti e futuri del Paese e dei suoi cittadini, assicurando loro gli insegnanti più qualificati fra quelli oggi disponibili e ponendo le basi per averne di migliori in un arco di tempo non troppo lungo.

Altro che fare piazza pulita dei requisiti minimi e sacrificare, sull’altare di una male intesa pace sociale, i diritti costituzionali dei più giovani e soprattutto dei più deboli, quelli che non hanno alle spalle famiglie che possano rimediare ai danni di una scuola giocata al ribasso.