“Non mi capisci!”. Quante volte lo diciamo?! E quante volte lo ascoltiamo! Non ci sono case in cui questa frase non abbia trovato e non trovi ospitalità, oggi come in ogni epoca.
Impossibile sbagliare dicendo che chiunque nella sua vita ha ripetutamente pensato, riguardo una persona cara – madre, padre, figlio, marito, moglie, fratello, sorella, amico – “Tu non mi capisci!”.
Sappiamo quanto questo pensiero possa essere drammatico e quanto, in certi momenti, l’incomprensione sia percepita come definitiva, assoluta, universale. Dal “Tu non mi capisci!” al “Nessuno mi capisce” il passo può essere breve, molto rapido ed ancor più devastante.
I tanti fatti di cronaca, che per rispetto del dolore delle vittime e della miseria dei colpevoli non intendo citare, ribadiscono con decisione quello che invece resta sempre in ombra nelle tragedie e nello sciacallaggio mediatico: la comprensione tra esseri umani non è mai immediata e non è garantita da alcuna dotazione genetica.
Di fronte all’intesa tra un neonato e la mamma si corre solitamente il rischio di ricondurre l’armonico scambio di vocalizzi, di sguardi e di contatti corporei ad un istinto materno che renderebbe la madre “programmata” all’accudimento funzionale del figlio, inteso come recettore passivo delle funzionalità materne.
Questa visione naturalistica del rapporto madre-figlio impedisce l’annotazione, in realtà sotto gli occhi di tutti, dell’enorme lavoro in cui si ingaggiano invece mamma e bambino, sin dalle prime ore di vita. Chi si occupa di neonati o chi ha vissuto la maternità sa bene quanto l’allattamento, ad esempio, sia un’operazione complessissima, in cui entrambi i protagonisti si devono impegnare con pazienza e senza lasciarsi scoraggiare troppo facilmente. Posizioni comode da scoprire, orientamento del seno, posizionamento del volto e del naso del bambino e poi l’articolazione di respirazione, suzione e deglutizione … e molti altri elementi la cui sola elencazione impiegherebbe pagine, al termine delle quali avremmo solo descritto i primi laboriosi aggiustamenti, anticipo di quelli che saranno necessari per tutto il resto della vita.
Aggiustarsi, accordarsi, cercare l’incontro sono invece la linea guida, la norma dell’esistenza e non è difficile accorgersene osservando la vita con onestà, senza riduzionismi teorici o scorciatoie comportamentali.
È dilagante invece l’ideale dell’intesa, come magico incontro di anime, in cui non servirebbe né parlare né esprimersi per giungere ad una reciproca comprensione. Di questo ideale si nutrono tutte le teorie sull’amore come colpo di fulmine o attrazione magnetica, secondo cui basterebbero uno sguardo ed il correlato batticuore ad assicurare la certezza di aver finalmente incontrato la persona “giusta”.
Quest’idea di pace e soddisfazione come dotazioni naturali che dovrebbero caratterizzare ogni buona relazione, rappresentano una zavorra teorica ingombrante e spesso ostacolante il quotidiano lavoro dei rapporti. Ho tante volte ascoltato mamme e papà raccontare le scene di pianto dei figli al supermercato, a casa di parenti, al ristorante o in spiaggia, situazioni imbarazzanti non tanto per gli strepiti dei bambini, quanto per gli sguardi sconcertati dei presenti. “Alla fine gli ho comprato quello che voleva altrimenti non avrebbe smesso”, “Mi guardavano tutti e mi sono sentita una madre incapace!”, “Mi dispiaceva non farlo contento e allora ho ceduto!”.
Il pianto dei bambini diventa così molto frequentemente l’area di resa dei genitori, il confine di capitolazione dei propositi educativi.
Giova d’altra parte osservare come non di rado sia proprio la rigidità dei padri e delle madri, il loro bisogno di attenersi ad un vademecum pedagogico per non incorrere nell’auto ed etero-rimprovero d’inadempienza, che inasprisce le reazioni dei bambini, i quali non tarderanno ad ingaggiarsi in un interminabile braccio di ferro a cui d’altra parte – ammettiamolo – saranno stati tentati dalle famose regole, ferreamente applicate.
In questi casi i figli agiranno specularmente, restituendo al genitore la modalità di risoluzione dei conflitti che proprio a casa hanno conosciuto.
“Vinca il più forte!” – sia questa forza il tono di voce, l’agitazione, il nervosismo o piuttosto l’ostinato silenzio, il rifiuto di ogni contatto, l’isolamento in camera – diverrà negli anni il dogma con cui affrontare ogni conflitto, a casa, a scuola, nella società.
Se da un lato si impara quindi che il conflitto non dovrebbe esserci, che non va bene perché segnalerebbe una crisi, un problema, elementi socialmente sgraditi e sgradevoli, dall’altro lato ci si accorge ben presto che è proprio la “forza” – come estremizzazione di una modalità difensiva che taglia fuori la possibilità dell’accordo, del dialogo, della parola come mezzo – la più accreditata strategia di insabbiamento del conflitto.
Pochi riconoscono ed ancor meno ammettono di vivere dei conflitti; seguiranno negazioni e rimozioni che impediscono una seria ed autentica analisi del proprio ed altrui stato psichico.
Si apprende presto a nascondersi a se stessi, allenandosi così per nascondersi tanto più efficacemente agli altri. Si risponderà poi “tutto bene!” a chi chiede come ci vada la vita, sentendosi disonesti, ma comunque confortati nella menzogna dal fatto che così si fa, e così fanno tutti.
“Cerco di non pensarci” è il sedativo a cui molti ragazzi, e non solo, ricorrono quando riaffiora la sofferenza. A volte però la rimozione fallisce, non si riesce più a non pensarci ed anzi al contrario quel pensiero diventa fisso, mentre ci si scopre del tutto impreparati all’affronto ed allora, miseramente quanto improvvisamente, ci si ritrova incapaci di governare i pensieri che invadono, dilagano e chiedono – impongono – un argine, un’azione che ponga termine al loro insostenibile fluire.
Che la mano afferri allora un oggetto, uno qualunque, utile a porre fine a questo straripare d’angoscia – sempre fatta di contraddizioni a cui non si trova composizione – è cronaca nota.
I giovani però, ed anche i meno giovani, se posti in condizioni favorevoli parlano e lo fanno alla grande. Vero che non è facile! Vero che ci vuole tempo! Vero anche che ci vogliono orecchie che abbiano già conosciuto la possibilità di rielaborare, grazie alla parola e alla presenza, i dolori, le contraddizioni, le autoaccuse ed i tormenti.
Le orecchie e i corpi necessari a questo ascolto, non sono però, in primis, quelle delle istituzioni pubbliche – su cui ogni male finisce con l’essere scaricato quando si cerca rapidamente un colpevole –, ma sono innanzitutto quelle di ogni persona che decida di esserci davvero, lì dove sta e di non attraversare il tempo come una sagoma grigia, pietrificata dal “Ed io? Che posso farci io?”.
Ammettiamo una buona volta che l’unico che possa davvero fare qualcosa, l’unico con il potere di cambiare è sempre e solo lui: “io”.
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