Il ragazzo ha appena terminato il colloquio e prova un senso di liberazione. Lo stesso che prova probabilmente anche il commissario d’esame, specie quello esterno (ne abbiamo fatto un altro!). Ed ecco, immancabile, automatica, di prassi, incombente la classica domanda che si fa in questi frangenti: “Che farai dopo?”.



Per lo studente è il segnale che, oltre che l’esame, si è chiuso un ciclo, come la luce verde al semaforo, come il momento dell’addio, come un disagio, un’ultima interrogazione a cui dover rispondere, ultima e spesso imbarazzante. “Che farai dopo?”. La sensazione che ho da qualche anno è che davvero questa domanda è diventata un problema, un punto interrogativo che in fondo lo studente preferirebbe non tenere in considerazione. Non subito per lo meno.



Negli afosi giorni estivi di luglio, in cui alcuni colleghi sono stati anche alle prese con la formazione per “esperti nell’orientamento scolastico” pronti ad occuparsi delle prospettive future degli studenti (e a prepararsi per guadagnare qualche soldino in più, che non fa mai male), la domanda fatidica è stata ripetuta e ripetuta nelle commissioni d’esame, ma a pensarci bene non era la domanda più importante, quella fondamentale. Dopo tredici anni sui banchi di scuola, spesso conclusisi con risultati molto modesti e lacune notevoli (non lo dice il sottoscritto, che comunque lo ha dovuto dolorosamente constatare di persona, ma le statistiche), dopo un colloquio d’esame in cui si è parlato a volo d’uccello di tutto un po’, senza avere approfondito davvero niente e soprattutto ciò che forse stava più a cuore agli studenti, la grande domanda inevasa e non posta è: “E ora? Chi sei ora?”. Chi sei? A cosa ti sei appassionato in tredici anni di studio? Cosa hai capito di te? Quali punti di forza ritieni che siano i tuoi? Dove devi migliorare? Quando hai studiato una pagina con gusto? Cosa ti ha illuminato, ti ha fatto battere il cuore? Quando la fatica è stata davvero ripagata? Cos’è che ti muove? Quale ideale? Quale sogno? Appunto: “E ora? Chi sei ora?”.



Colleghi che studiate nel gran libro dell’orientamento, siete pronti per porla questa domanda? Per metterla al centro? Siete pronti per farvene carico affinché tutti noi ce ne facciamo carico? Guardatevi intorno: è tutta una risposta al problema del “cosa fare dopo”. E ci sono fiere, si fanno incontri a scuola, i ragazzi ascoltano gli immancabili influencer specializzati, o il passaparola degli amici, vanno sui siti delle università, ci sono i tutorial. Non è certo l’informazione a mancare.

xEppure, tra tanta ridondanza di offerta, manca qualcosa di troppo importante. Per scegliere, il soggetto deve essere consapevole prima di tutto di ciò che è e di ciò che vuole. Da qui, mi sembra, occorrerebbe partire per capire quello che poi si dovrà fare e per non essere degli alienati. In caso contrario altri aspetti incideranno sul futuro e si faranno scelte poco coerenti, in fondo forzate. Ma anche chi sembra avere idee molto chiare rispetto al successivo percorso formativo dovrebbe essere in grado di rispondere a quella domanda, per non rischiare di cominciare un cammino che poi sarà abbandonato.

Chi sono? Pensiamoci: è la domanda più importante e la meno posta. Ma se la scuola non serve a capirlo un po’ di più, come può servire alla vita? E cosa serve a capirlo? Non per forza la riuscita nella materia che piace di più, per la quale, come si dice, si ha il pallino, ma un’esperienza di studio che ha realmente coinvolto, nella quale lo studente ha dato il meglio di sé stesso. Per un ragazzo che si iscriverà a medicina potrebbe essere stato, per esempio, il lavoro su un poeta.

Il problema è capire che si studia per una passione, per un’acquisizione di senso, per un’avventura umana, non per mettere provviste in dispensa che poi “un giorno” serviranno. La domanda è sempre sul qui e adesso. Io devo vivere ora, non quando sarò laureato. È ora che la mia vita deve essere piena di senso. E lo dovrà avere anche quando mi sarò finalmente “sistemato”. Se tredici anni di scuola non sono serviti a capire qualcosa di più rispetto a chi si è, vuol dire che il percorso non è stato fruttuoso. In ogni caso l’obiettivo da mettere al centro è aiutare lo studente a rispondere a quella domanda. Tutte le discipline scolastiche dovrebbero concorrere alla risposta.

La sensazione, ma potrei sbagliarmi, è che invece come al solito altre siano le logiche che prevalgono: il percorso di studi che offre più possibilità di lavoro, o quello che “tira” di più, quello che va di moda, quello che la famiglia (sì, ne esistono ancora…) ti consiglia caldamente, quello che ti porta lontano da casa, magari all’estero… Si rischia la confusione, il caos mentale, la paralisi. Liberi finalmente, sì, liberi. Ma di essere cosa? Liberi di non essere niente che in fondo appassiona? Niente per cui in fondo si sia sé stessi? Che libertà è? Chi sei stato, cosa sei stato durante la tua carriera di studente? A cosa hai dato valore? Quale pensi che sia il tuo posto nel mondo, ma non tanto come lavoratore e consumatore, quanto piuttosto come essere umano che ha qualcosa, qualche talento da spendere, per sé stesso e per gli altri?

Non c’è orientamento se non si riparte dall’io, se non si educa il ragazzo a dare importanza a ciò che veramente è importante, umanamente stringente. Il problema delle scelte sbagliate o superficiali, con i relativi frequenti abbandoni (oggi in crescita) si risolve prendendo sul serio la vita, la realtà con tutte le sue implicazioni. Bisogna vivere sul serio subito, sempre. Chi vive in una superficialità leggera e un po’ stupida non può di punto in bianco reggere alla provocazione di una scelta tanto importante, alla chiamata alla responsabilità. “E ora? Chi sei ora?”.

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