La prima metà del 2020 ha mostrato in maniera spettacolare non solo che la scuola italiana è al tracollo, come sintetizzato da Luca Ricolfi alcune settimane fa, ma anche che fondamentalmente è considerata dalla società soltanto come una gigantesca baby sitter per i giovani. Magari una baby sitter un po’ moralista, che dovrebbe inculcare le regole della convivenza che le famiglie non sono più in grado di insegnare.



Ormai è evidente: alla stragrande maggioranza degli italiani la scuola non interessa, se non per piazzare i figli e i nipoti per alcune ore al giorno, ricavando qualche tipo di generica istruzione e ovviamente “il pezzo di carta” (la cui inutilità, però, è anch’essa davanti agli occhi di chi voglia guardare).



Sono pochi i mezzi di comunicazione di massa che cercano di stimolare dibattiti sensati su metodi e contenuti dell’educazione. Sono rarissimi i genitori che fanno domande su tali questioni. Sono inesistenti i sindacalisti che si pongono problemi diversi dalle recriminazioni di categoria nei confronti dei vari governanti.

Giustamente gli insegnanti e i dirigenti scolastici di buona volontà, dopo aver calcolato attentamente quanto manchi alla pensione, cercano di fare del loro meglio per “mandare avanti la baracca” nel nome della propria dignità, della cura per gli allievi, talvolta di un ideale. Ma lottare contro i mulini a vento sarebbe più semplice e comunque non si può non essere turbati dalla politica dell’“Armiamoci e partite!” attuata anche in tempi di didattica a distanza.



In vista della riapertura delle scuole a settembre, bisognerebbe agire con “attenzione, prudenza, poche regole (ma chiare) e tanto buon senso” (sono parole del prof. Giuseppe Remuzzi sul Corriere della Sera di qualche giorno fa).

Ma questo tempo drammatico ha tolto definitivamente la voglia di cullarsi nelle illusioni.

Bando all’ipocrisia: attenzione, prudenza, poche regole chiare e buon senso sono esattamente le cose che mancano!

I danni provocati dalla chiusura prolungata delle scuole sono senz’altro gravi. Inoltre, non c’è dubbio che diverse categorie di lavoratori abbiano già fatto tanto per “tenere in vita” l’Italia, correndo molti rischi. Infine, lo slogan “La salute è la cosa più importante!” è sicuramente discutibile (a cominciare da Socrate, in classe incontriamo spesso persone che non hanno avuto certo il “salvare la pelle” come regola di vita).

Però non sarebbe il caso che qualche docente cominciasse ad alzare la testa e farsi alcune domande? “Ma questi qua che ci rimandano in classe, hanno una vaga idea di quello che stanno facendo?”. “Ci possiamo fidare del nostro ‘datore di lavoro’?”. “Per quale motivo ha senso tornare in classe?”.

Anche senza pensare, come fanno alcuni maliziosi, che la riapertura avvenga soprattutto per cercare di evitare la débâcle alle elezioni di fine settembre, si può mettere in dubbio (ah! Il dubbio! Osannato da tutti gli intellettuali moderni…) che valga la pena rischiare la propria vita (e soprattutto quella dei propri familiari) per rimettere in moto un cosmo, quello scolastico, in cui le poche regole chiare e il buon senso latitano ormai da anni.

Coloro che affermano che se si rimane ancorati alla didattica a distanza si rischia un disastro generazionale, probabilmente non si rendono conto che dentro al disastro, in Italia, ci siamo già (o forse hanno bisogno di qualche baby sitter a buon mercato).

Il momento sgangherato in cui stiamo vivendo richiede chiarezza. I fraintendimenti devono essere evitati. Si può anche decidere di dare la vita per i propri studenti, ma non per questa scuola, né per questa società. Men che mai per ordine di questi politici, così lontani dalle caratteristiche individuate da Edith Stein, secondo cui chi si dedica a quella nobile occupazione dovrebbe avere “la capacità di abbracciare molte cose con uno sguardo, di riconoscere i particolari nella loro relazione con il tutto” (Gli intellettuali).