Gli esami di Stato sono terminati ed è il caso di tentare un bilancio. Ovviamente si tratta di valutazioni soggettive, per quanto corroborate dal confronto con non pochi presidenti di commissione.

Già da adesso emerge il dato che i non promossi costituiscono un’esigua minoranza, praticamente insignificante. Su questa base si può affermare con certezza che l’esame di Stato non costituisce più una prova autentica, che, per essere tale, dovrebbe comprendere la possibilità dell’esito negativo. Una reale prova, infatti, non può non contemplare l’ipotesi del fallimento. Ciò vale non solamente a fronte di un esame ed è proprio una tale alea incombente che invera la prova, la rende cioè temprante e produttiva di ricchezza esperienziale. Paradossalmente ciò accade anche a fronte di un esito negativo, perché si cresce anche nella sofferenza e nella delusione. Ciò che occorre, tuttavia, è che lo scaffolding della personalità abbia forza dapprima nel reggere e poi nell’elaborare la negatività dei fatti esistenziali.



Una seconda valutazione scaturisce dalla natura ritualistica dell’esame. Intendo, per essere più precisi, dal suo carattere cerimonialistico, che è una novità degli ultimi anni. Gli esami, infatti, terminano sì con l’esposizione dei quadri dei voti, peraltro oggi trasposta on line, con un’eccessiva difesa della privacy, all’interno del registro elettronico di classe. Ma nella realtà si concludono con le ultime battute della prova orale, cioè del colloquio. Quest’ultimo può anche essere andato male, ma la conoscenza dei voti delle altre prove e di quelli del credito (attribuito dai consigli di classe negli ultimi tre anni), fa sì che il colloquio sia nella maggior parte dei casi una formalità da sbrigare.



Tutto questo è noto agli alunni, quindi il termine del colloquio consente l’avvio dei festeggiamenti. Così comincia la festa, che è qui (direbbe Jovanotti), cioè lì, all’uscita dall’aula del colloquio. Se poi i presidenti di commissione si impancano e testardamente costringono i ragazzi e le loro famiglie a celebrare i festeggiamenti all’uscita da scuola (per rispetto di chi, in altre aule, sta sostenendo l’esame), poco cambia rispetto al baccano degli applausi, dei cori, dei brindisi con tanto di corone di alloro (che oggi si sprecano anche per i diplomati e non più solamente i laureati).



Qualcuno obietterà che questi sono i tempi e del resto c’è anche la tavoletta di uno scriba ittita che si scaglia contro i giovani suoi contemporanei, decisamente poco disciplinati. Ma il punto non è questo, come hanno spiegato gli ispettori nelle varie conferenze di servizio prima degli esami. Ciò rispetto cui occorre fare attenzione sono i ricorsi, sempre in agguato, anche per un voto ritenuto insoddisfacente.

Dunque, questi sono gli esami, dal punto di vista della scuola. Se poi qualcuno scopre altri significati, ciò è dovuto alla sensibilità personale del singolo docente e del singolo alunno. Quando accade, sbocciano quei momenti cristallini che condensano la ricchezza dei rapporti umani educativi. Ma, in termini di probabilità, ciò è abbastanza raro. Gli alunni, di fronte all’esame, nella sua laica sacralità e durezza, dovrebbero udire quella domanda che Martin Buber formula nelle sue riflessioni hassidiche e cioè: “Dove sei?”. Solo ponendosi, timorosi, di fronte a una tale domanda, i giovani acquistano coscienza del percorso che è la vita. Che talvolta trae il suo momentum proprio da un esame.

Se, però, una tale domanda non si percepisce, ciò non è dovuto all’udito distratto degli adolescenti, ma è una questione di acustica e cioè di ambiente. È la scuola che dovrebbe farla risuonare. Ma essa è intenta nella ricerca di tutor e orientatori, indirizzata al recupero del valore dei voti di condotta. Così si cimenta con gli addobbi, senza tenere conto della struttura obsoleta, che risale ai decreti delegati del 1974. Una scuola che è vibrante di attese di cambiamento, ma che le rifiuta per non far implodere l’equilibrio catatonico degli interessi contrapposti. Una scuola dove gli esami hanno perso la sostanza, che nessuno pare voglia ricercare.

Così essa ricorda quello sciocco di cui racconta ancora Buber. Un uomo talmente sciocco che non ricordava mai, la mattina, dove aveva messo i vestiti, la notte, prima di dormire. Per porre rimedio, decise di scrivere su un foglio dove andava riponendo i calzoni, la camicia e così via. La mattina dopo si vestì in un attimo. Poi, però, si chiese: “Ho trovato i vestiti, ma io dove sono?”. Così iniziò a cercare sé stesso, ma, nonostante l’impegno, non riuscì a trovarsi.

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