L’articolo di Susanna Tamaro sul Corriere della Sera ha suscitato diverse reazioni e commenti; forse perché tocca corde e fatti che in tanti vedono – più o meno direttamente – davanti ai propri occhi, quando si getta uno sguardo tra i banchi di scuola o sui muretti delle piazze; forse perché i sessantottini che chiama in causa si sentono coinvolti in prima persona nel riconoscimento di quel cambio generazionale; forse perché anche chi non è un sessantottino percepisce che quei problemi, quei cambiamenti e giudizi lo riguardano.



È innegabile che vi sia un grande divario tra gli anni d’oggi e quelli in cui si discuteva del mito del progresso e delle ideologie, consapevoli di dover prendere posizione in un modo o nell’altro. I cocktail più o meno chimici che ora vengono serviti nelle discoteche, le storie Instagram di 10 secondi instancabilmente registrate e pubblicate sembrano avere poco a che fare con le ubriacature di vino e la creatività poetica degli anni 60 e 70. Ma si tratta di un cambiamento genetico, di un istupidimento del Dna, o c’è qualcosa d’altro da capire, da cui – forse – ripartire?



Susanna Tamaro conclude la sua analisi con una constatazione interessante: “Essere duri, essere cinici, essere furbi, farcela: sono questi gli orizzonti in cui sono costretti a muoversi i ragazzi. I giovani che si drogano, che bevono fino al coma etilico, che praticano il sesso seriale, che compiono atti di autolesionismo sul proprio corpo, ci parlano di un tragico vuoto, di totale mancanza di senso e di direzione”. Questa osservazione piena di spunti pone almeno due problemi.

Primo: che lo si voglia vedere prendendo in causa i sabati sera dei giovani, l’attaccamento ai social network o la noia che campeggia nelle scuole, il dato di fatto dei problemi anche lì sollevati appare incontestabile. Ciononostante se ogni analisi – per quanto realistica – non è seguita da un’altrettanto realistica e necessaria domanda, proposta, ipotesi, rischia di generare il solo lascito di un’amarezza, di una idealizzazione per “i bei vecchi tempi”.



È curioso però che molti di coloro che riecheggiano la bellezza e la bontà dei tempi andati siano assai spesso gli stessi che non sanno rispondere – astrattamente o concretamente, come per chi con i giovani ha ancora a che fare – alla semplice e decisiva domanda: che fare ora per rivivere la gloria, la profondità, lo spessore di tempi giudicati migliori? Che cosa faresti tu, o che cosa fai tu per riportare ciò che di buono hai ricevuto, per trasmettere il valore che vedi mancare?

Leggiamo, con un tacito (e comprensibile) consenso, con un arreso consentimento, che nel gioco della materia di cui la vita di oggi è schiava, tra i giovani “non esiste il bene, non esiste la bellezza, non esiste l’amore, né il dono di sé”. Sembra però mancare a queste analisi sempre un pezzettino, vale a dire la domanda: invece io, tu, noi che riconosciamo tutto questo vero, che cosa stiamo davvero facendo affinché questo bene venga fuori? C’è – e qual è? – una proposta di bellezza e amore che stiamo preparando con forza e attenzione da portare domattina nelle classi, nelle scuole, nelle strade, nelle case? E quante volte ci si alza al mattino con il desiderio e la coscienza di fare ciò che si deve fare come un “dono di sé”?

Secondo: se è vero che il cinismo è tra i tratti dominanti ed esemplificativi di un tempo diverso da quello passato (probabilmente per ragioni anche descrivibili), dire che la mancanza di senso e direzione siano figlie del presente rischia di apparire inadeguato; lo sapeva bene Leopardi, che ha vissuto gran parte della sua vita nella percezione di quella stessa mancanza di senso e direzione; lo sapevano bene i poeti, i filosofi, gli scienziati di ogni epoca, che hanno fatto di quella mancanza di senso e direzione il seme della loro ricerca; lo sanno bene gli uomini di ogni epoca e ogni tempo, perché senza almeno l’intuizione di quel senso e di una direzione è faticoso vivere.

Allora, probabilmente non è vero che non esiste più la bellezza, l’amore, il senso del mistero. Forse i cocktail chimici, le storie su Instagram, le didascalie spesso filosoficamente ridicole che accompagnano le foto condivise sui social non sono altro che il tentativo di percorrere una direzione, di tracciarsela: scimmiottando la poesia, la morale, le ideologie di un tempo; eppur provando a riconoscersi in qualcosa o qualcuno.

L’ipotesi della mancanza di senso e del “tragico vuoto” porta in sé anche un altro grande rischio: supporre che vi sia una pienezza sbagliata, inutile, vana (quella dello sballo, del riempimento forzato) e di contro un pieno giusto. Se è certo che lo sballo non è in grado di riempire l’animo umano, e se è vero che esiste la possibilità di una pienezza, è però verissimo che questa è giusta nella misura in cui corrisponde all’attesa, alla presenza, all’urgenza di una domanda sempre individuale.

Il rischio è quello di fornire ricette pronte per ingredienti assenti o troppo fragili. È vero che la solitudine necessita di una compagnia autentica in cui scoprire qualcosa di più che in essa esiste e da cui si genera; il problema (e anche il bello) di questa sfida è che non si tratta mai di qualcosa di già pronto, assemblato, valido per tutti nelle stesse modalità. Pensare questo ci farebbe ingenuamente cadere nella tragica realtà che Caravaggio ha mostrato acutamente nella “Vocazione di S. Matteo”: la possibilità di trovarsi di fronte persino all’avvenimento più grande, inimmaginabile che possa esistere, come Dio stesso che entra in una stanza, eppure di non saperlo vedere, riconoscere; tranne chi (l’unico), forse cosciente della propria mancanza, solleva la testa e guarda. Bisognerebbe allora fare un passo indietro, a ciò che viene prima.

Di che cosa è fatta, di chi è fatta la mancanza di ciò che (ci) manca? Che semplicemente mi manca oggi, nell’istante contingente, oppure che mi manca sempre, che riconosco come strutturale. Domandarsi questo, o tentare di sollecitare questa domanda nei propri studenti, nei propri amici e compagni diventa interessante, appassionante per ciascuno. Davanti a quel “tragico vuoto” che vediamo e di cui sentiamo così spesso parlare, si legge talvolta che l’unico antidoto è un pieno che lo vinca. Questo è vero, ma anche stavolta non so se sia abbastanza.

Qualche anno fa ho trovato l’intuizione più significativa a questo in una straordinaria poesia di Emily Dickinson: “Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato. / Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci. / Non si chiude un abisso con l’aria”.

Sarebbe bello guardare questo abisso per vedere di che cosa è fatto; stare attenti a scoprire se ci sia e dove sia cosa (o chi) lo riempie; accorgersi di chi cerca la stessa cosa e ci aiuta; e soprattutto viene voglia di non farsi distrarre da chi tenta di proporre solo aria, da chi ci fa tornare a casa con le fauci più spalancate.