“Perché ho deciso di farlo? Mi sono solo messa nei panni dei miei colleghi che lavorano in rianimazione. Se fossi stata io al posto loro mi sarei aspettata un aiuto, l’arrivo dei rinforzi, il sollievo di un cambio”.
A rivolgersi alla mia IIIC del liceo classico, in video-collegamento Skype, è Rita Fiaccabrino, ragusana, 27 anni, da due infermiera in Ginecologia negli Spedali Civili di Brescia. Sin dai primi giorni dal diffondersi dell’epidemia di coronavirus in Lombardia, Rita ha chiesto di essere assegnata come volontaria al reparto di Medicina che ospita 26 posti destinati a pazienti Covid–19, sei dei quali di terapia sub-intensiva.
Mentre la mia didattica a distanza d’inglese è alle prese con Evelin di Joyce paralizzata sul molo di Dublino, come noi nelle nostre abitazioni, chiedo a Rita di offrirci l’opportunità di spalancare le finestre della nostra classe virtuale sulla sua realtà.
Una rapida presentazione e, davanti alla testimonianza della nostra ospite, fioccano le domande dei miei alunni.
“Com’è cambiata la tua vita?” chiede subito Ritamaria. “È stata stravolta – afferma la giovane infermiera –. Attraversare la città deserta per andare al lavoro alle cinque del mattino è surreale. I ritmi sono serrati. Non ci fermiamo un attimo. Lavoriamo sempre al limite. Come la disponibilità dei letti che non si svuotano mai”. Ma non è solo negatività, “si tratta anche di un’esperienza professionale incredibile”.
“Dove hai trovato il coraggio di offrirti volontaria?” domanda Giada. La risposta stempera la tensione in una risata. “Sai, per fare certe cose – ci confida – ci vuole una certa dose di sana incoscienza”.
Nel racconto della giovane infermiera emergono i nomi degli antiretrovirali, degli antimalarici e degli antibiotici con cui combattono il virus, ma ciò che Flavia desidera sapere realmente è: “Qual è la cosa che lascia il segno in un’esperienza come questa?”.
“Innanzitutto che nulla è scontato. La salute per esempio. La possibilità di lavorare o di andare a scuola. Ma non solo. Quando io mi vesto ed entro in reparto devo restarci per 5 o 6 ore, perché se esco non posso rientrare. Non posso uscire a bere un bicchiere d’acqua se ho la gola secca e neppure se mi scappa di andare in bagno. Figurarsi il caffè. L’altra cosa di cui mi accorgo, diversamente da ciò che crediamo, è che noi non abbiamo mai il controllo su tutto. In reparto, ad esempio, devi calcolare ogni movimento. E anche quando ti svesti, a fine turno, devi fare attenzione a ogni gesto. Il rischio di contaminarti permane”.
Paura? “Ho paura anch’io – confessa – come tutti. Si rischia di essere sopraffatti dalle emozioni. Non si tratta solo della paura che ti porti addosso tu, c’è anche quella che vedi nei pazienti. Ci dibattiamo tra paura e speranza. Alla fine, però, fai quello che va fatto!”.
La difficoltà più grande? “Non potere avere un contatto ‘reale’ con il paziente. Ho visto morire tanta gente. Hanno diritto a morire con dignità, cioè confortati dai propri cari, trattati con cura anche da morti, e invece manca il tempo”.
Marina: “Il peggio deve ancora venire? A cosa serve il nostro sacrificio?”. “Ciascuno deve fare il suo” afferma con decisione. E aggiunge: “Non bisogna abbrutirsi abbandonandosi all’inedia o deprimendosi. Come in ospedale, anche all’esterno siamo tutti parte di una catena. Se cede un anello, la catena si spezza. Quando mi assale lo sconforto mi aiuta pensare al dopo, fatelo anche voi”.
Già, il dopo. Come ci troverà il futuro che sopraggiungerà per grazia, come una bella giornata? Ci scopriremo abbrutiti, alla ricerca egoistica di un tornaconto particolare, oppure ci si sorprenderà capaci di una “fratellanza” che non credevamo possibile?
Se sarà così, benché chiusi tra le mura domestiche, come Ulisse, insieme ai miei alunni, avremo preso il largo per il vasto mare dell’umano.