Scuola aperta, scuola chiusa. Superiori sì, superiori no. Forse le secondarie riapriranno il 7 gennaio con una capienza al 75%. Forse. La notizia dell’ultim’ora mette in crisi l’unica certezza del decreto entrato in vigore il 4 dicembre e che doveva valere sino a metà gennaio 2021. Tutto è tornato in partita e nel mezzo della bagarre per la stesura dell’ennesimo provvedimento riguardante le restrizioni sulle festività, spunta anche la scuola. Il rientro dopo la Befana è messo in discussione. Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico ha dichiarato ieri che “se la curva epidemica schizza verso cifre insostenibili, questa data (per la scuola, ndr) viene messa in discussione. Quindi è auspicabile che quella curva continui a scendere”. Una situazione snervante, che fa ricadere sui ragazzi le inefficienze di una sanità in grande difficoltà e le debolezze di un piano dei traporti mai aggiornato.



In fondo è facile prendersela con la scuola. Non ci si sono associazioni di categoria, sindacati a manifestare per l’apertura. Neppure moti di piazza, black bloc o organizzazioni dell’estrema destra a battersi perché i cancelli siano tenuti aperti. Qui non si perdono fatturati, gli studenti non scendono in piazza per tornare in classe. Solo qualcuno, imitando Greta, si è piazzato davanti ai cancelli per protestare.



Tra le aule c’è un basso rischio di contagio e nessuno ha dimostrato che la frequenza scolastica abbia fatto impennare gli indici. Nei talk show alla moda, alcune settimane fa, veniva mostrato un grafico che mostrava come l’aumento vertiginoso della seconda ondata sia cominciato a inizio ottobre, a 15 giorni dall’apertura dei cancelli. Alla Spezia però, provincia che ha iniziato a settembre già in Dad, per i festeggiamenti compiuti a fine agosto dai tifosi locali, per la promozione in serie A dei loro beniamini, il livello di contagiosità, già alto, si è adeguato in poche settimane alla media nazionale. Le scuole non sono e non erano da mettere alla berlina, anche se è stata la strada più facile. Eppure in primis per il premier Conte, seguito in trincea dalla ministra Azzolina e da tanti altri, mai e poi mai i cancelli dovevano rimanere serrati. A Boccia, Speranza e Franceschini non interessa l’istruzione, a loro interessano solo i numeri e le statistiche. Nel governo Italiano nessuno in realtà ha difeso il diritto allo studio, come in Germania, Francia e altri paesi europei. Non sanno che in Dad la scuola è finita. Non si rendono conto che alla lunga, studiare davanti a un computer, si genera un gap generazionale insanabile.



Ma come, lo smartworking non è una cosa buona? Non è bello vedere come molti giovani, in linde camerette o soggiorni ben curati, lavorino da città del meridione in collegamento con aziende ubicate a Berlino, Londra o Milano? Per gli studenti la risposta sta sui volti sempre più smarriti dei nostri quindicenni, che una mattinata dopo l’altra sono diventati dei coatti del telefonino o del computer, prigionieri delle loro case. Visi sempre più smunti, costretti a seguire lezioni dei loro docenti divenuti immateriali, ridotti a loro volta a flatus vocis. Parole, parole… recita in modo soave la canzone, ma è bene sapere che ascoltare le lezioni per mesi con un auricolare è una condizione pesantissima, soprattutto per gli adolescenti. Perché la scuola è materia, non può prescindere dal corpo, dalla fisicità. È relazione, è vita, è gioventù e la digitalizzazione la uccide. Non c’è solo perdita di contenuti culturali, ai nostri ragazzi si ritira l’umano, come una maglia di lana infeltrita. E poi a rimetterci sono sempre i più deboli. Per coloro che meno motivati si sono sempre trascinati in classe controvoglia e hanno seguito le lezioni a stento, è una Caporetto. Hanno perso contatto quasi subito. Si trincerano dietro le videocamere chiuse e annaspano cercando di arrivare a fine mattina. Per loro è concreta la massima evangelica “a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Per questi ragazzi il gap culturale e motivazionale sta aumentando e l’abbandono scolastico è dietro l’angolo. Sono uno, due, tre per classe, forse più. Per queste decine di migliaia di giovani sembra non esserci posto nella scuola digitale, che in molti esaltano come il modello del futuro.

L’ultima trovata in attesa dell’ipotetica ripartenza il prossimo 7 gennaio riguarda i taxi. Per diversificare il trasporto locale, secondo TgCom24 per potenziare il trasporto pubblico, nel rispetto delle norme anti–Covid, Regioni e Comuni possono stipulare convenzioni con aziende private di bus, titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi e servizio di noleggio con conducente. Lo prevede un emendamento al dl Ristori presentato dal centrodestra e approvato in commissione al Senato. Le risorse mirano a fornire “servizi aggiuntivi di trasporto pubblico destinato anche agli studenti”. Ma ce li vedete gli studenti andare a scuola in taxi? Una proposta che tra l’altro non tiene conto del fatto che i taxi percorrono collegamenti prevalentemente urbani, mentre l’affollamento sui mezzi avviene sulle metro, sugli autobus e sui treni extraurbani, sia nelle piccole che nelle grandi città. Ora in materia di trasporti, visto che le superiori potrebbero tornare a scuola al 75%, per rimediare agli errori degli ultimi mesi, è la volta dei prefetti. Là dove il ministro dei Trasporti De Micheli ha fallito, continuando a ripetere che la capienza all’80% non aveva nessuna controindicazione, là dove i governatori e i sindaci non hanno centrato l’obiettivo, riusciranno a superare l’impasse i rappresentanti del governo nelle province? È un auspicio e una forte necessità per tutti i giovani di questa bella e malandata nazione.