Storia è una materia strana. Innanzitutto perché tende a polarizzare gli studenti, che finiscono per disprezzarla (una discreta maggioranza), o adorarla (una combattiva minoranza). Ma qual è la radice di queste montagne russe catulliane tra odio e amore?
I fattori possono variare da persona a persona, ma di una cosa si può essere certi: tutti gli studenti che provano una crisi di rigetto di fronte a Carlo Magno, Cesare, Carlo V e Francesco Giuseppe vedono la storia come una lista della spesa. Nomi e date, date e nomi, in un inesorabile elenco da memorizzare per l’interrogazione. E, sicuro come due più due fa quattro, tre secondi dopo che il professore segna il voto sul registro, ecco che arriva il salvifico momento in cui liberare il cervello da tutta quella mole di informazioni inutili.
I nostri alunni non sono tutti così, ma il solo fatto che un numero spaventosamente alto di loro rispecchi tale descrizione dovrebbe interrogarci su come insegniamo questa benedetta (o maledetta) disciplina. Partiamo dal presupposto che la insegniamo male. Non per chissà quale nostra intrinseca incompetenza, ma perché siamo costretti a insegnarla male. La coperta è troppo corta, è da una vita che lo si dice e lo si ripete, per cui alcuni argomenti vanno spiegati frettolosamente – come una lista della spesa, appunto – altri vanno proprio saltati a piè pari. Gli insegnanti di storia, quando si parla di progetti scolastici, sono regolarmente i più tirchi e tignosi a elargire ore, non perché odino i colleghi, ma perché ogni minuto è prezioso quanto l’acqua del Sahara, specialmente in quinta (anche perché, perlomeno in via teorica, all’ultimo anno, è il 15 maggio il termine ultimo per spiegare, non il 7 di giugno).
Poi, puntualmente, tutti si scandalizzano perché nella gran parte delle scuole italiane i ragazzi non arrivano a studiare ciò che accade dopo il 1945; ed ecco che Ho Chi Min è il nome di un ristorante cinese e Breznev quello di un drink a base di Vodka con ghiaccio. Allora, che fare? Si potrebbe credere che una soluzione molto semplice sia rimodulare la scansione cronologica con cui vengono affrontati gli eventi storici nei vari cicli della scuola italiana. Magari evitando di ricominciare da capo in prima superiore, si è detto. Sarebbe indubitabilmente semplice credere che in questo modo si possa giungere al risultato di andare avanti con il programma (ah, il programma: è il gatto di Schrödinger per eccellenza della scuola italiana: non c’è più, e allo stesso tempo continua a esserci), ma il prezzo da pagare, è – appunto – che gli studenti interpretano la materia come un lungo e noioso elenco. Proprio qui sta la fregatura: il rischio di questa operazione è di aumentare l’effetto “lista della spesa”, invece che diminuirlo.
La storia è infatti una disciplina capricciosa: saltare pezzi è un buon viatico per non far capire i nessi che intercorrono tra i vari eventi, oltre che rendere più difficile la comprensione del perché accadono certe specifiche cose in certi specifici luoghi, che poi è la parte più interessante, nonché divertente per gli studenti, provare per credere.
Lasciamo perdere gli uomini primitivi, gli assiri, i babilonesi e i romani, tanto sono stati già affrontati alle medie? Certamente si può fare, ma con il rischio di far saltare del tutto i meccanismi di causa ed effetto tra i Neanderthal e i troll di Tolkien, la nascita dell’agricoltura e la politica, o tra i dinosauri e il petrolio che muove le nostre auto.
In altre parole, prima di agire dobbiamo capire a quale problema vogliamo davvero porre soluzione. Vogliamo risolvere il problema degli adolescenti, che non capiscono il senso di studiare la storia e premono il pulsante di reset ogni volta che finisce una verifica? O vogliamo sistemare il nostro problema, essere arrivati alla fine della Seconda guerra mondiale invece che alla caduta del Muro?
Forse – e mi ci metto dentro io per primo – è più semplice scaricare il barile su una questione di mera quantità, più che di metodo. Occorrerebbe però davvero ripensare in maniera radicale tutta la didattica della storia, in un Paese in cui la maggior parte di coloro che questa disciplina insegnano sono laureati in altro, in particolare in filosofia (parlo della classe di concorso A19). Tutto merito di una impropria banalizzazione dell’impostazione hegeliana di Gentile, secondo la quale, in fondo, un filosofo, in quanto filosofo, è anche, automaticamente, storico.
E se i due terzi (o più) di coloro che insegnano storia al triennio delle superiori negli indirizzi liceali è laureato in filosofia, cosa dobbiamo pretendere? Non sarà certo colpa del povero insegnante se, disperato, salta, taglia, cuce e a volte bara, abbarbicandosi alle esatte parole del sacro libro di testo quando un argomento non gli è del tutto familiare (o più precisamente, non gli sono familiari le implicazioni di lungo periodo di un evento su tutti gli altri successivi).
Riassumendo, è vero che esiste un problema di quantità eccessiva, ma attenti a non mascherare con esso problemi più strutturali. È rassicurante credere che togliendo i dinosauri sarà tutto più semplice, ma forse è più interessante lavorare insieme per elaborare un modo più efficace di insegnare questa fantastica materia, un modo che renda più evidente ai nostri ragazzi cosa c’entra con la loro vita, di oggi, un tizio morto migliaia di anni fa.
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