Molti esperti spiegano a noi docenti come dovremmo agire quando arriviamo alla valutazione finale, negli scrutini oppure agli esami. I più seri, mi pare di poter dire, ci ricordano che “valutare significa riconoscere il valore dell’altro che è davanti a me”.
Niente di più stimolante. Spesso però si fa fatica a calare nell’esperienza le belle parole e le ottime intenzioni.
Supponiamo che io debba, “in scienza e coscienza”, proporre una valutazione insufficiente per un alunno. Per cominciare, molti colleghi mi guarderanno come un marziano. Penseranno che non abbia saputo proporre le mie materie in un modo sufficientemente “attrattivo” (senza capire che a volte i ragazzi fanno veramente di tutto per “distanziarsi mentalmente” dal docente). Oppure sentiranno la mia proposta come un giudizio negativo sulle proprie valutazioni, qualora siano almeno sufficienti. Oppure ancora deploreranno il fatto che la media dei risultati degli alunni della scuola fatalmente si abbasserà.
Il biasimo nei miei confronti verrà probabilmente espresso a mezza voce, ma interverrà allora il dirigente scolastico (o il presidente della commissione), che cercherà di farmi cambiare idea.
Dirigente: “E le competenze? Lei deve valutare le competenze!”.
Io: “È proprio quello che ho cercato di fare, preside. Forse qualche conoscenza avrei anche potuto estorcerla al ragazzo… È sulle competenze, che inevitabilmente cade!”.
Buona parte del consiglio di classe (o della commissione di esame) mi rinfaccerà comunque di non aver tenuto conto che a settembre l’alunno in questione ha avuto una distorsione alla caviglia e per questo motivo ha perso le lezioni fondamentali per introdursi allo studio delle mie materie.
E poi, essendo io arrivato quest’anno nell’istituto, sono proprio sicuro di aver interiorizzato le griglie valutative descritte nel Ptof? (in effetti, avendo cambiato oltre dieci scuole in sedici anni di insegnamento, posso ben dire che l’anarchia delle griglie regna sovrana).
Una volta riuscito a superare la riprovazione dei colleghi e del dirigente, mi troverò davanti l’inconsapevolezza degli alunni: “Ma come, prof, mi ha messo 5? Eppure in febbraio una data l’avevo azzeccata… E dire che si ostina a farcene imparare a memoria ben tre per ogni verifica… Come se le date in storia contassero qualcosa…”.
E poi ci saranno i genitori, pronti a: 1) ripetere pedissequamente quanto detto dal proprio figlio per giustificarsi; 2) tirare in ballo ogni altra scusa legata a problemi familiari; 3) improvvisarsi esperti in qualsiasi materia.
Tornato a casa, aprirò un giornale: i pochi articoli che si occupano di scuola mi spiegheranno che il titolo di studio ormai vale poco più di un pezzo di carta (a dirla tutta, però, il valore legale ce l’ha ancora…).
Tornando, infine, agli esperti di valutazione, i loro scritti cercheranno di farmi capire che non solo non ho saputo intercettare l’attenzione dell’adolescente, ma non sono neanche consapevole della differenza tra i vari tipi di valutazione. Se lo fossi, non mi permetterei mai di mettere un’insufficienza al povero ragazzo, che in ogni caso si è senz’altro impegnato molto a cercare di superare i propri limiti.
Ecco, cari esperti, spiegatemelo voi: a questo punto, perché dovrei proporre un’insufficienza?