“L’ideale sarebbe che i ragazzi non abbiano con sé il cellulare”, mi è capitato in diverse occasioni di esprimere questo suggerimento, presentando a gruppi di genitori qualche attività, un’uscita giornaliera o settimana di vacanza. Sempre, in queste situazioni, quello che era semplice suggerimento, pronunciato quasi en passant, in mezzo a riflessioni sui contenuti della proposta educativa o indicazioni logistiche non secondarie, si è trasformato immediatamente nell’oggetto principale delle domande e degli interventi degli adulti, che assumono solitamente tutte le posizioni possibili: “sono assolutamente d’accordo”, “mio figlio a questa condizione non può partecipare”, “ma allora come lo posso contattare?”, dando così luogo ad accese discussioni tra i genitori.



Se, all’inizio, si prova un po’ di scoraggiamento perché un particolare assorbe così tanto tempo ed emozioni, man mano ci si accorge che in realtà si stanno toccando alcuni nodi fondamentali della questione educativa. In particolare, sorge la domanda: è possibile proporre un ideale educativo condiviso? Si può riconoscere una meta, anche esigente, come la rinuncia al cellulare, come obiettivo da perseguire insieme?



Questa sembra essere la provocazione che è possibile ricevere dalla recente circolare ministeriale circa il divieto di utilizzo, anche per fini didattici, del cellulare nella scuola primaria e secondaria di primo grado. Certamente, le indagini scientifiche e gli studi specialistici a riguardo dell’impiego del telefonino forniscono una serie di dati impressionanti, con cui occorre fare i conti, ed è auspicabile che l’approfondimento di tali ricerche porti a dibattere a proposito dell’eventuale estendibilità di tali provvedimenti ad altri ordini di scuola o a possibili interventi legislativi sull’utilizzo dei social da parte di minorenni. Tuttavia, al di là delle questioni tecniche in gioco e della determinazione delle migliori strategie da impiegare sul fronte scolastico e non, la scelta del ministro costituisce un richiamo per genitori, insegnanti e formatori a esplicitare l’orientamento fondamentale del loro operato: dove stiamo andando? Che cosa proponiamo ai ragazzi che incontriamo?



In primo luogo, per riprendere la terminologia della circolare stessa, l’uso continuo dei telefoni cellulari determina una perdita di concentrazione, spirito critico e adattabilità. L’oggettiva correlazione tra utilizzo del cellulare e diminuzione di tali attitudini obbliga a chiederci se percepiamo caratteristiche, quali memoria o capacità dialettica, come beni davvero amabili e perseguibili, ossia come delle virtù. Si tratta di una proposta esigente, non tanto per la fatica che potrà richiedere la sua applicazione, quanto perché costringe tutti noi a dirci che non intendiamo solo consegnare una serie di strumenti, una certa capacità di dominare determinate tecnologie, ma che vogliamo proporre un preciso modo di vivere, un modello di vita buona, apprezzabile e condivisibile da parte di quelli che incontriamo. La scelta ministeriale è un’occasione per ricordarci che l’educazione non può mai essere solo un fatto formale (la consegna di mezzi, procedure o abilità), ma che è anzitutto un avvenimento sostanziale (l’incontro con un modello, un esempio, un testimone). Dunque, per che cosa vogliamo veramente mobilitare le nostre energie e sforzi?

Inoltre, l’impiego del telefonino genera un vero e proprio scontro tra diverse preoccupazioni in gioco. Si vorrebbe che un ragazzo non possieda il telefonino, al tempo stesso è così rassicurante per un genitore saperlo rintracciabile in ciascun istante. Si desidera che una ragazza possa vivere senza un cellulare, al contempo esso permette a una famiglia di organizzarsi molto più facilmente. Si potrebbe fare a meno di tale strumento, ma risulta spesso una soluzione comoda a tanti problemi. Le scelte più difficili da prendere non sono tanto quelle tra bene e male, ma quelle in cui si tratta di più beni, tutti giusti e corretti, presi singolarmente, ma in conflitto tra di loro. Nessuna di queste opzioni presenta nell’immediato grandi danni o particolari vantaggi. Come scegliere allora? Si possono tenere insieme tutte queste esigenze o si è per forza costretti a scelte anche radicali? Spesso, quando ci si trova immersi in questioni del genere, l’aiuto non può che venire da qualcun altro. La questione del telefono a scuola manifesta la debolezza della volontà di ragazzi e adulti, studenti, genitori e insegnanti: nessuno può farcela da solo, nessuno da solo può districarsi nella selva di beni e opzioni a confronto. Serve un percorso che trasformi lentamente la capacità di giudizio del ragazzo come dell’adulto, che li renda sempre più liberi, un percorso che non dia nulla per scontato, ma che insegni lentamente a vedere dove ci portano i nostri gesti e le alternative che ci troviamo davanti. L’educazione non può riguardare esclusivamente l’intelligenza, le abilità o le conoscenze, ma anche la capacità della volontà di aderire a un bene, di diventare sempre più determinata. Siamo disposti a riconoscere la debolezza della nostra e altrui volontà e ad affrontare il rischio di un cammino fatto di slanci e cadute, di tentativi fallimentari e di conquiste faticose?

Infine, la decisione del ministro implica che non tutte le strade sono percorribili allo stesso modo o conducono a una identica meta e costringe ad affrontare il tema del male nell’educazione. Risulta sempre fastidioso ricordarsene, ma non si può crescere nessuno ignorando che ci sono direzioni, scelte che possono essere sbagliate, arrecare danno o rovinare qualcuno. In un caso come quello dell’utilizzo del cellulare, il quale evidentemente non è un male in sé, siamo costretti a riconoscere che talvolta il male non si manifesta solo in gesti eclatanti, ma spesso appare più come uno strato di polvere che lentamente si è ingrossato ricoprendo la nostra esistenza, facendo perdere brillantezza in modo non immediato, ma non meno grave. Un divieto, come quello della circolare ministeriale, pone una domanda seria a ogni educatore: non si può risparmiare ogni rischio a un ragazzo, ma non si può nemmeno ingenuamente negare che esistano dei pericoli. Come si può stare di fronte al male e a un errore insieme a un giovane? Come si può parlargli di un pericolo, senza ridurlo o ingigantirlo?

Ecco che un dibattito molto concreto come quello sul telefonino in classe suscita grandi questioni, l’ideale da proporre, la scelta tra beni diversi e la capacità della volontà, lo scontro con la dimensione del male. Sono le questioni che tradizionalmente investivano l’ambito dell’ascesi, parola caduta in disuso, anche per la caricatura che se ne è fatta o per la pretesa esagerata di forgiare le persone. Tuttavia, un dibattito come quello suscitato dalla circolare ministeriale ci fa chiedere se non sia necessaria anche oggi un’ascesi, non un’ascesi per conformarsi a qualche modello eroico, ma un’ascesi per accogliere la realtà.

 

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