Studiare, fin da piccoli, è universalmente questo: memorizzare e ripetere, ché il giorno dopo l’insegnante potrebbe interrogare. Perciò il giorno prima i bravi bambini ripetono la lezioncina alle mamme: per ficcarsela bene in testa, e vomitarla meglio.

È così, innocentemente, che si diventa imbecilli, facendo quel che va fatto, sotto la compiaciuta protezione genitoriale. Si acquisisce un modo di parlare innaturale, una lagna senza inflessioni né sussulti, dal ritmo monocorde. Le mamme ascoltano svogliatamente scorrendo frattanto il telefono. Pochi anni e, con passaggio indolore, verranno rimpiazzate dal muro, tanto il grado di interlocuzione è in sostanza il medesimo. I ragazzi a quel punto parleranno sempre di niente (che li riguardi) e per di più da soli. Salterà cioè, oltre al complemento oggetto, anche il complemento di termine. Soprattutto sarà saltato il soggetto.



C’è un io che studia? L’agghiacciante scenario della scuola secondaria è un mondo di avatar, che modificano in automatico il tono della voce quando c’è di mezzo lo studio.

Immagina una ragazza israeliana o palestinese che, con una macchina del tempo, entrasse invisibile fra qualche secolo in una classe. Assiste alle spiegazioni sulla sua guerra, poi alle verifiche: piccoli e grandi ripetono quanto hanno memorizzato. Nemmeno l’ombra di suo padre ucciso, né del suo sgomento irrimediabile. Fra quelle mura non scende una lacrima. Eppure tutte le pagine di un libro di storia sono intrise di sangue umano, ogni capitolo è un campo di battaglia, colmo di cadaveri e mutilati. L’hai mai guardato così, quel libro? Finché le pagine non si impastano di lacrime e sangue, non stai studiando. Più di un secolo fa Renato Serra scrisse: “Penso che anch’io ho pianto fanciullo sulle corone antiche, sui popoli scomparsi senza colpa dalla scena del mondo, su tutte le cose che si sono perdute e più di lor non si ragiona: ho letto con una lacrima negli occhi fissi, i denti stretti in silenzio, la storia delle conquiste e delle distruzioni, le vittorie dei Romani e dei barbari, le guerre degli Spagnuoli e le rivolte dei villani, le guerre dei trent’anni e le guerre di religione. Ero un fanciullo solo, e non sapevo come avrei potuto continuare a vivere. Ma ho potuto continuare. Ho rinunciato a vendicare le vittime, ho dimenticato di consolare quelli che erano morti senza consolazione: ho vissuto ugualmente”.



Se anche esistesse un bambino così lucido, la scuola si preoccuperebbe subito di mettere un tappo alle sue domande lancinanti, tranquillizzandolo con la lezioncina secondo cui la storia serve a non ripetere nel futuro gli errori commessi nel passato: un ennesimo slogan da memorizzare e poi ripetere. Però scusatemi, è mai successo a qualcuno che: stava commettendo un errore e invece, memore di qualche paragrafo del libro di storia, ha aggiustato il tiro? Vedi, è aria fritta: tu sei una cosa, quei contenuti un’altra. Cosa c’entri tu con quello che studi?

“In altre analisi il ricercatore e il tema rimangono separati: conosco le Montagne Rocciose, ma io non sono le Montagne Rocciose. Al contrario, riguardo alla conoscenza di me stesso io sono quello che cerco di conoscere: essere e conoscere, soggetto e oggetto sono un’unica cosa”. Questa osservazione di Heschel ci mette davanti al problema cruciale del rapporto (o dell’estraneità) fra te e la principale occupazione delle tue giornate. Chi se lo pone entrando in classe?



Primi giorni del terzo liceo: i manuali di letteratura dissertano su mille argomenti, che si potrebbero spiegare affinché li memorizzino e te li ripetano. Tu ritieni che senza certi picchi di Jacopone da Todi si viva peggio. E siccome hai letto le sue laudi, ne scegli alcune, corredandole con una sfolgorante lezione di Ungaretti. Una distanza siderale separa comunque questi ragazzi da quel mondo, e allora tiri in ballo De André (che alle loro orecchie suona ancora più antico del Pianto della Madonna) e già che ci sei il Rex tremendae di Mozart; fai mille esempi, “cercando infinite lezioni / a un solo verso, a un pezzetto di verso”, come scriveva Pasolini. A poco a poco sollevano lo sguardo e si sporgono in un mondo diverso.

Tu sai però che serve seminare ma anche proteggere i semi, perché i ragazzi non meritano di crescere ripetitori ma neppure consumatori, foss’anche di contenuti culturali. Allora concedi qualche minuto perché si appuntino quel che potrebbero approfondire con un lavoro personale di scavo, andando a caccia dei bagliori appena intravisti. Ti accorgi che, semplicemente, non sanno farlo: se non hanno pagine e pagine da memorizzare e ripetere, arretrati, ansia, verifiche imminenti, medie da aggiustare, inquisizioni professorali, a loro non sembra neanche si tratti di scuola. Se qualcuno degli assenti chiedesse i compiti per la volta successiva, risponderebbero che non c’è niente: abbiamo soltanto letto poesie e ascoltato musica. Perché studiare, al paese loro, vuol dire da che mondo è mondo memorizzare e ripetere.

Al momento, quindi, qualcuno si è acceso, qualcosa si è illuminato. Suona la campanella, e un secondo dopo tutto sfuma: eccoli con il telefono in mano, o in preda al panico per la verifica di matematica, se non a girovagare lungo i corridoi. La vita continua senza te, senza Jacopone, senza Mozart: quel mondo si eclissa, l’incendio è stato domato. Li senti mai parlare, all’uscita, di quel che hanno scoperto in classe? Affàcciati dentro uno dei crocchi che affolla la strada: qualcuno parla ancora del nocciolo di una lezione? è mai il motivo di qualche litigata?

La loro vita, generalmente, è altrove. Avremo fatto 34 punture di Dante e ingerito per via orale qualche compressa di Socrate, ma la scuola è un medicinale che non entra in circolo: la poesia non scorre nelle loro vene. Certi versi sono stati in grado di attraversare i secoli, ma non il breve suono della campanella, l’istante che divide italiano da matematica, il marciapiede che separa la scuola dalla strada.

Scavalcare quel filo spinato è il campo appunto dello studium, alla latina: ardore, applicazione, cura. Per una materia (oggetto)? Innanzitutto per sé (soggetto). Ci vorrebbero pazienza, intelligenza, sensibilità, fatica, precisione, qualcuno affianco, che si sieda con te, a insegnarti come e perché farlo, a invertire la rotta, a lottare contro la smemorataggine e tutto quello che lo studio paragrafesco mortifica. Qualche eccezione esiste, in effetti: chi, travolto dal gusto per il proprio cuore, si inoltra nel mare della realtà che impregna le pagine. E fa un passo, poi un altro ancora: conosce, attraverso le parole, le cose; attraverso le cose, il proprio io.

Però che strazio guardarli, fuori o dentro l’aula: quasi a nessuno importa nulla. E tra gli adulti non se ne discute. Quasi a nessuno cioè importa nulla che quasi a nessuno importi nulla.

“Prof, scusi, ma… anche nelle altre classi leggono quello che leggiamo noi?”, mi chiese una mattina Rossana. “Sì, più o meno sì”, le risposi. “No, perché… a guardarli, non sembra, proprio non sembra”.

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