Nel suo articolo sulla inclusione nella scuola pubblica italiana (Corriere della Sera, 21 gennaio), Galli della Loggia pone, tra le tante questioni, un importante interrogativo che merita di essere ripreso. “È possibile o è frutto di ipocrisia trattare in modo eguale ciò che è diseguale?”. Indipendentemente dallo sviluppo specifico del ragionamento dello storico, per il quale la promessa di includere i ragazzi affetti da disabilità e disturbi di apprendimento (BES) è tradita da una organizzazione del “sostegno” piena di pecche e di problemi irrisolti che rischiano di danneggiare più che di corrispondere alle reali esigenze, il tema sollevato dalla domanda ha una sua ragione d’essere che attraversa tutto il raggio dell’azione educativa.
Infatti ogni persona che inizia un percorso di istruzione e di educazione è diversa dall’altra e come tale dovrebbe essere considerata, nella prospettiva di conseguire non il minimo livello accettabile di sapere (inteso come insieme di conoscenze e competenze), bensì il massimo consentito dalle sue doti di partenza che si arricchiscono durante i lunghi anni del tragitto scolastico. La Costituzione italiana all’art. 34 recita che “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. Oggi l’obbligo scolastico è innalzato a 10 anni, ma non pare che la semplice frequenza di un cammino di studio risolva il grave inconveniente della diseguaglianza, che esiste ed è visibile e certificabile per molti aspetti.
La scuola italiana è diseguale non perché tratti gli alunni in modo diseguale ma perché le tante maniere, legislazioni e tecniche utilizzate per essere “egualitari” dal punto di vista dell’offerta formativa si sono rivelate in qualche modo un boomerang. Facendo riferimento ai cosiddetti ELET (Early leavers from education) ossia giovani nella fascia d’età 18-24 che hanno ottenuto al massimo la licenza media e decidono di non frequentare, o di smettere di frequentare, la scuola superiore o alternativi corsi di formazione, nel 2021, in Italia si è registrata una percentuale di giovani (con o senza cittadinanza) che hanno lasciato precocemente gli studi del 12,7%, ben tre punti percentuali in più rispetto alla media europea (9,7%). In particolare, gli uomini registrano un tasso di abbandono del 14,8% e le donne del 10,5%. Si tratta di capire a quale livello l’abbandono scolastico incrocia la diseguaglianza, cioè se sia causato da essa, come e perché. E soprattutto si tratta di capire se l’attività didattica prodotta dalla scuola, in tutti i suoi segmenti, sia effettivamente inclusiva, come si suole dire, o non produca essa stessa diseguaglianza pur non volendolo.
Per quanto concerne il primo aspetto della questione (l’incrocio), gli studi e le analisi del fenomeno “abbandono” hanno mostrato a più riprese che la diseguaglianza, quando non è sanata, produce abbandono scolastico. Ma non solo perché nella scuola si riproducono le differenze economiche di classe, per cui l’alunno che è figlio di un ambiente economicamente povero tende a fuoriuscire precocemente dal sistema scolastico perché risente del peso della condizione familiare. Molti scompensi a questo riguardo sono stati sanati nel nostro Paese. Nella scuola primaria o secondaria di primo grado non c’è quasi più abbandono per cause economiche familiari. Semmai nella secondaria di secondo grado e all’università questo scompenso di classe continua a provocare disagio, accentuato ai nostri giorni dalla necessità di accedere agli strumenti informatici e alla digitalizzazione delle conoscenze, connessi al costo delle attrezzature (peraltro in parte fruibili spesso all’interno degli istituti) e agli ambienti, se idonei oppure no, alla trasmissione dei dati. Il vero problema è la demotivazione culturale della famiglia stessa: questa davvero inerente al processo di lenta disaffezione agli studi dei figli. Si tratta in altre parole di una bassa dose di rischio che la famiglia intende assumersi a proposito della carriera intellettuale dei figli, perché non intravede sbocchi lavorativi immediati per loro (e quindi trasmette una sensazione di inservibilità dello studio, se non per scopi pratici) giungendo alla conclusione che un lungo percorso non serve.
Attenzione: si vuole affermare non che l’abbandono si evita se la famiglia obbliga i figli recalcitranti a permanere tra i banchi, quanto piuttosto che è la perdita dalla tradizione culturale della famiglia, cioè delle radici di senso sulla quale è costruita, che porta ad un livello di interlocuzione con i figli a bassa o bassissima intensità. Su questo piano la scuola può fare poco, se non prestare attenzione anche alla famiglia di provenienza dell’alunno considerando i genitori (quelli che chiedono aiuto, non quelli che difendono i figli come esponenti del sindacato dei “papà e mamme in ansia”) come parte in causa, semmai da educare insieme ai figli.
Resta da affrontare il secondo aspetto del discorso accennato (e con questo ci si ricollega anche alla provocazione iniziale di Galli della Loggia): se la didattica inclusiva non sia causa essa stessa di abbandono scolastico. Lo è di fatto quando non coglie le differenze che esistono tra gli alunni. Affermare che esistono differenze sembra una banalità, che tuttavia se non chiarita può essere presa per eresia ed essere passibile di accusa di razzismo. Le differenze di cui si parla non sono quelle etniche o sociali, bensì divari nella capacità di apprendere. La risposta alla domanda di didattica personalizzata (insegnare le stesse cose in modo diseguale onde permettere a tutti di giungere ai migliori risultati congrui con le potenzialità di base) è il compito della scuola. In quale altro luogo ciò dovrebbe avvenire? La scuola esiste per questo. La categoria di personalizzazione, cavallo di battaglia degli ultimi decenni di riforme o sperimentazioni scolastiche, implica di per sé la differenziazione delle proposte di insegnamento/apprendimento.
Tuttavia la personalizzazione nella scuola italiana non realizzerà mai i suoi obiettivi, anche nel senso dell’eliminazione delle diseguaglianze, se non risolverà tre grandi problemi di carattere strutturale.
Il primo riguarda gli spazi, gli ambienti fisici della lezione: non si può pensare di interessare alunni magari distratti e demotivati in luoghi ristretti, asfittici talvolta, male riscaldati o male rinfrescati a seconda della stagione, in sostanza brutti (ovvierà a questa carenza il PNRR? Vedremo).
Il secondo tema è quello degli insegnanti che non possono fare tutto, che devono rivolgersi a classi sempre numerose, che non possono permettersi radicali progettualità. Il ricorso alla didattica laboratoriale è un palliativo, poiché alla fine si tratta di aiutare il singolo alunno a tirare fuori il meglio di sé. Può venire incontro una soluzione “all’americana”, già in uso da qualche parte anche da noi, per cui è l’alunno a cambiare ambiente (come all’università) per trovare l’insegnante e la sua corrispondente materia? Oppure può servire lo smembramento della classe e la formazione di gruppi diversi per livello di apprendimento? Anche questo si fa, dove è possibile, e con un dispendio di energie e finanze non indifferente. Si può estendere il metodo, sulla base di una riflessione sulle migliori pratiche in uso.
Terzo problema, quello dei percorsi scolastici e degli indirizzi. Vige in Italia il presupposto (errato) della licealizzazione dei percorsi di istruzione. Siamo ancora in attesa della riforma (questa davvero epocale!) istitutiva di un canale di istruzione professionale (ma i tecnici sono davvero migliorati) che costituisca un’alternativa reale per chi non desidera essere un alunno qualunque, ma una persona dotata di un desiderio di conoscenza simile ma non uguale a quello di altri. Una sete che aspetta di essere abbracciata nella sua irriducibile diversità.
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