Il concetto di inclusione scolastica ha conosciuto importanti sviluppi a partire dagli anni Novanta, in conformità con le indicazioni dell’OMS e dell’OCSE. Un recente documento ufficiale della Divisione scuola del Canton Ticino si propone di fornire un quadro di riferimento rispetto a questa tematica, per promuovere ulteriormente una scuola inclusiva. Ben al di là dei diversi sistemi normativi nazionali e delle prassi vigenti, esso mi offre l’opportunità di sviluppare alcune riflessioni di carattere generale su questo tema e su alcune preoccupanti tendenze in atto che implicano una visione dell’educazione e della scuola nel suo complesso.



Pongo subito due domande scomode: l’inclusione è un obiettivo che va perseguito senza reticenze, sicuri che rappresenti un bene per l’allievo, per il gruppo classe e per la società? E soprattutto, quale visione di soggetto essa tende a promuovere e quale modello di scuola?

Per rispondere segnalo alcuni aspetti chiave del percorso che, semplificando molto, ha portato, nel Canton Ticino come in Italia, da un’impostazione basata sull’integrazione scolastica di allievi con bisogni educativi particolari (BEP) a un’impostazione inclusiva di tutto il gruppo classe. Con integrazione si intende la partecipazione e il coinvolgimento, mediante l’uso soprattutto di strategie pedagogico-didattiche, di persone con disabilità nel percorso previsto da un unico sistema scolastico. Con inclusione si pone l’attenzione soprattutto sulla valorizzazione del potenziale di crescita e di apprendimento di ogni allievo, sottolineandone il valore della diversità, per il singolo e per l’intero gruppo classe. In questa prospettiva, nella scuola inclusiva, anche “svantaggi” non meglio definiti e non diagnosticati possono a loro volta essere considerati BEP. Il criterio per stabilire l’approccio scolastico adeguato sarà perciò il funzionamento dell’allievo in un determinato contesto. “Il ruolo dell’ambiente, della situazione e del contesto” – si legge nel documento citato –  “sono importanti per determinare il funzionamento e quindi il BEP”. L’ambiente in cui è inserita la persona con disabilità “tanto più saprà essere privo di barriere (…) tanto meno la disabilità dell’allievo si esprimerà”.



Alla base di queste considerazioni sull’integrazione e sull’inclusione c’è l’idea del funzionamento dell’allievo rispetto all’ambiente scolastico. Questo approccio mostra sempre più il suo limite e svela quale sia la concezione educativa che esso veicola. Il buon funzionamento dell’allievo viene valutato sulla base del suo adattamento al contesto. Nella categoria del BEP si dovranno inserire non solo gli allievi con disabilità o disturbi diagnosticati, ma anche coloro che presentano qualsiasi altro svantaggio.

Non ci sono alternative: l’allievo deve funzionare. Il testo del documento è esplicito: “Mettendo al centro il funzionamento, e non solo la diagnosi, la visione del BEP si amplia: l’interesse non è più posto unicamente sulle disabilità diagnosticate, sui disturbi specifici dell’apprendimento, sullo svantaggio sociale, linguistico e culturale, ma porta a includere nel ragionamento anche allievi con un alto potenziale cognitivo, con disturbi emotivi o con caratteristiche non definibili in una categoria diagnostica, bensì derivanti da una difficoltà di funzionamento o da uno svantaggio”. Tutta l’attenzione, perciò, andrà posta sulla modifica del contesto che non è più soltanto quello architettonico, socio-relazionale o definito dai programmi scolastici, ma più ampiamente culturale o mentale, fino al punto di rendere irrilevante il concetto stesso di diversità, poiché nessuno potrà/dovrà più sentirsi diverso.



Nella scuola c’è quanto mai bisogno di sostegni scolastici e soprattutto umani per tutti, di aperture che valorizzino la persona nel suo desiderio di felicità (che non coincide con il suo funzionamento), di ambienti che favoriscano l’incontro con gli altri e la partecipazione al percorso di crescita individuale e comune. Ma non basta funzionare bene per vivere bene. Come aveva efficacemente mostrato Miguel Benasayag nel suo saggio Funzionare o esistere? (Vita e Pensiero, 2019), se noi ci valutiamo come macchine che devono funzionare, diventa inevitabile pensare che per stare bene occorra “eliminare tutte le resistenze e i limiti, intesi come confini che ostacolano la nostra potenza di agire” (p. 39). È ancora il filosofo e psichiatra franco-argentino che ci avverte: “Perché i sistemi funzionino bene è necessario eliminare sempre di più il fattore umano” (p. 58). Come dire, ancora con le parole di Benasayag, “tutto è possibile, a condizione di dimenticarci di noi stessi a forza di iperflessibilità e iperfluidità” (p. 65), censurando la nostra natura, la nostra storia, i nostri limiti e le nostre debolezze. Proprio queste sono le componenti vive di un corpo vivente e di un’esperienza nel mondo che si manifestano nel desiderio sorgivo di un senso della vita che non può che scaturire da ciò che noi siamo. In ogni cosa, in ogni circostanza, favorevole o sfavorevole si pone una questione di senso, tanto è vero che difficilmente dimentichiamo il paradosso con cui ci sentiamo sfidati: “tutto funziona bene, ma io soffro”.

“La situazione – scrive Benasayag – esige il coraggio dell’esistenza” (p. 84); il coraggio di assumerci il compito, tanto più inevitabile in ambito educativo, di entrare con un’ipotesi positiva nel mondo e nella nostra realtà particolare, con responsabilità. Vale a dire cercando di esplorare ogni possibile risposta che abbracci interamente la nostra natura umana nella sua specificità, senza censure.

Concludo tornando al discorso sull’inclusione e sul processo che ne ha caratterizzato l’evoluzione. Esso ci rivela, come detto, implicazioni che riguardano profondamente la concezione della persona nella sua totalità, la relazione tra i soggetti e tra soggetti e mondo.

Alle difficoltà scolastiche di allievi e allieve si è cercato di rispondere con reti di sostegno che primariamente miravano ad acquisire competenze di base in una prospettiva programmatica. Si sono differenziati i percorsi, le strategie, i contenuti. La sempre maggior fragilità dei giovani e il loro disagio ha focalizzato l’attenzione su tutta una serie di problematiche (oltre che cognitive, psicologiche, culturali, emotive, relazionali, ecc.) che rendevano difficile il funzionamento di questi giovani nel sistema scolastico. Si è dato spazio, parallelamente all’allargamento della categoria del BEP, alla valorizzazione delle potenzialità personali, dando un’importanza crescente alle soft skills, per lo più in una visione utilitaristica, con lo scopo di trovare le modalità per “assicurare a ogni allievo una propria forma di eccellenza” (così nel documento governativo ticinese). Si è consolidato il processo di adattamento tra soggetto e ambiente intervenendo direttamente sul contesto affinché diventasse illimitatamente accessibile.

Ora si vogliono modificare i contesti per renderli a priori fruibili per tutti e tutte – questi i termini usati nel documento citato. Il funzionalismo denunciato da Benasayag mostra così, in modo ancora più evidente, le sue perverse implicazioni antropologiche. Si è passati dall’adattamento dell’individuo all’ambiente, all’adattamento dell’ambiente all’individuo. Sappiamo bene che da sempre l’uomo cerca un confronto costruttivo con la realtà, per realizzare sé stesso e per stabilire con essa i nessi più convenienti ai propri bisogni riconosciuti nella loro totalità. La sfida, oggi più che mai grave e drammatica, è non perdere sé stessi paradossalmente affermando la propria realizzazione. T.S. Eliot direbbe, “sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono”. Uno scenario in cui, di fatto, l’illusione di poter eliminare limiti e fragilità condurrebbe alla cancellazione di ogni diversità e di ogni alterità. Quell’alterità che costituisce il fondamento del nostro essere, su cui si innesca l’inesauribile ricerca di felicità e di senso di ogni uomo.

Credo così di aver dato risposta alla seconda domanda posta all’inizio. Di conseguenza ritengo che, per rispondere alla prima domanda, l’inclusione sia un bene se realizzata in una scuola umana; in una scuola che tendenzialmente non censuri nessuna dimensione dell’esperienza umana e ne accetti le sfide mettendo al centro il bisogno di senso senza la pretesa di risolverle.

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