Sarà certamente aspro ma anche interessante il dibattito sulle nuove Indicazioni nazionali, stante che il “documento, sui cui contenuti si può essere d’accordo o meno (…) comunque possiede una sua robusta fondazione culturale e un solido impianto strutturale” (Tuttoscuola).
Se il focus del dibattito è l’insegnamento della storia, con la grande questione se approfondire lo studio dell’Italia e dell’Occidente sia scelta “sovranista-nazionalista” oppure scelta di realismo, anche tutto il resto merita attenzione. In particolare l’insegnamento della grammatica, di cui mi sono occupata più volte su queste pagine, perché negli ultimi mesi è stata oggetto di ampia discussione fra gli studiosi (centrali gli interventi sulla rivista Il Mulino di Mirko Tavoni, che ha posto il problema, e di Michele Prandi, che ne ha già dato una sintesi propositiva), senza tuttavia coinvolgere la “massa critica” degli insegnanti.
Gli studiosi non soltanto hanno chiarito i punti deboli della tradizione scolastica, ma hanno avanzato una inedita proposta di consenso su alcuni punti comuni alla riflessione teorica per rendere l’insegnamento scolastico più coerente e ragionevole (nel senso di “ispirato all’uso della ragione”).
E allora ecco alcune osservazioni sul documento, che spero possano essere utili al dibattito.
Un aspetto positivo è quello di ribadire che il centro della riflessione sulla lingua non sono le regole, come era parso dalle prime indiscrezioni sulla stampa, ma “il valorizzare con scelte consapevoli e appropriate le possibilità espressive che la lingua ci mette a disposizione”, in funzione di quella chiarezza e correttezza comunicativa che sta a cuore alla commissione.
Buono l’accenno alla necessità di padroneggiare anche la lingua medio-alta, che è necessario potenziare oltre quella dell’uso ordinario, una preoccupazione che il compianto prof. Luca Serianni aveva manifestato in più occasioni. Interessante che ci siano anche due esempi concreti di punti critici dell’insegnamento tradizionale: il fatto che il soggetto può non trovarsi in prima posizione, e che il verbo non necessariamente indica “azione”.
L’accento sulla comunicazione rappresenta una svolta rispetto alla “ossessione per la norma” e alle tassonomie, vero freno per qualunque riflessione funzionale sull’uso della lingua. Già la versione 2012 delle Indicazioni aveva messo in guardia dalla riduzione della grammatica a terminologia, aspetto ripreso dal documento, che propone invece una riflessione condotta non “attraverso definizioni teoriche o attraverso codificazioni e tassonomie formali” ma attraverso “esempi pratici”, specialmente nella primaria.
Tuttavia una lacuna del documento, a mio parere, consiste nel fatto che la teoria in grammatica è consustanziale da subito, e che il grave limite dell’insegnamento tradizionale non sta solo nell’eccesso di tassonomie e nell’ossessione per la norma, ma nell’incoerenza del modello, che “scoraggia proprio le menti aperte al ragionamento attivo” (Michele Prandi).
Non viene riconosciuto che è cruciale per qualunque disciplina definire i concetti in modo rigoroso e coerente sulla base di criteri verificabili (non “dogmatici”, direbbero Colombo e Graffi), conforme all’osservazione dei fatti e alla ragione.
Per rimediare all’incoerenza della grammatica tradizionale non basta il riferimento alla grammatica implicita e alla “grammatica naturale”, perché la grammatica “non è una faccenda di significati”, e non è quindi interpretabile in base a meri criteri nozionali, “ma di forme e di relazioni fra forme e significati” (ancora Colombo e Graffi).
Su questo punto a mio avviso il testo risulta debole, perché da un lato rimanda alle personali propensioni degli insegnanti (“al di là del modello concettuale adottato”), dall’altro si sbilancia molto poco nell’indicare punti di riferimento concreti: i “suggerimenti” del modello valenziale, per fortuna non assolutizzato come in altri documenti (“laddove risultano maggiormente utilizzabili”), e il modello dei costituenti, che compare però riferito soltanto a un possibile superamento dell’analisi logica.
Si prende atto che la teoria linguistica è andata molto avanti rispetto agli standard scolastici (“L’insegnante terrà conto delle riflessioni degli studiosi che negli ultimi anni si sono impegnati nel riesame critico dei concetti tradizionalmente accettati e offerti dalla manualistica”) e che sarà necessaria una formazione dedicata, ma lasciando il dubbio che la teoria sia in sé negativa o almeno contrapposta agli “esempi pratici”.
Nella mia esperienza (condivisa da molte decine di insegnanti, specialmente di coloro che hanno partecipato alla Bottega dell’Insegnare dell’associazione Diesse), il rapporto fra esempio pratico e teoria è fondamentale: l’esempio è utile se viene poi letto in chiave formale, per arrivare alla definizione di un concetto che superi l’esempio e possa essere applicato anche ad altri esempi meno chiari e meno “prototipici”: come nel caso del soggetto che può essere facile (soggetto che è anche agente e in prima posizione nella frase), oppure non prototipico, dove serve il più univoco concetto sintattico di soggetto come “padrone” della concordanza con il verbo (e questa è teoria, checché se ne dica).
Non è possibile nemmeno trattare le parti del discorso (programma previsto per la primaria) senza passare da un modello teorico. Per fare qualche esempio, come distinguere un aggettivo possessivo da un pronome possessivo, senza il concetto di gruppo sintattico?
È nel gruppo sintattico che si riconosce se il “capo” del gruppo è un nome (e allora il possessivo sarà aggettivo) oppure se è il possessivo stesso (e allora è pronome). È nel gruppo sintattico che si riconosce se la parola giovane è aggettivo (in un gruppo con a “capo” un nome) o se è sostantivato.
È ancora all’interno di un gruppo sintattico che si riconoscono le famigerate preposizioni improprie (l’argomento più cliccato nel mio sito www.insegnaregrammatica.it) in quanto reggono un gruppo nominale, allo stesso modo delle preposizioni semplici. In questo senso il modello dei costituenti, cui si fa un rapido accenno appunto solo parlando della vecchia analisi logica, può essere proposto in modo intuitivo e alla portata anche dei bambini della scuola primaria.
Non bastano poi né la valenziale né i gruppi sintattici: “ogni tentativo di imporre un modello monocratico è condannato a fornire uno strumento parziale e inadeguato” perché “la grammatica non è una monarchia assoluta ma una confederazione” (Prandi), e ciascun ambito ha bisogno di un angolo visuale adeguato.
Anche la semantica va considerata, facendo leva in questo caso sulla competenza implicita: attenzione a non buttare via l’analisi logica (il bambino) con le tassonomie eccessive (l’acqua sporca): l’analisi logica è analisi della “struttura dei concetti che alimentano il pensiero coerente (…). In quest’ultimo caso, si serve delle stesse abilità cognitive impegnate nella comprensione di un testo” (Prandi).
C’è da sperare che il dibattito sulla grammatica possa coinvolgere finalmente anche un numero maggiore di insegnanti, molti dei quali si rendono ben conto della necessità di un cambiamento, ma non trovano supporto, strumenti e soprattutto compagnia nel tentare la non facile traversata. È anche questa la funzione dell’associazionismo, perché non bastano le leggi per innescare un movimento virtuoso nella scuola, mentre la formazione e soprattutto l’accompagnamento reciproco possono farlo.
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