L’annunciata volontà da parte del ministro Valditara di revisionare le indicazioni nazionali e le linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione apre un mondo di considerazioni che fanno capo tutte quante (o dovrebbero) alla necessità di una profonda riconsiderazione del significato dell’educazione nella nostra epoca e dell’utilità della scuola nella nostra società. Se il cuore dell’uomo, di tutti gli uomini, è sempre lo stesso e batte perché la felicità sia una meta raggiungibile su questa terra come caparra di un destino di eternità, ciò che l’uomo (e soprattutto il giovane) non riesce a identificare è il metodo per arrivarci. La realtà attraverso la quale si dovrebbe camminare appare infatti ambigua, contraddittoria, spesso troppo mutevole e artificiale per essere identificabile.
Manca inoltre un’ipotesi di significato condivisibile, per cui si possa dire che per tutti il bene consiste in questo e il male in quest’altro, e non forse qui e forse là. Il “forse” non apporta il beneficio del dubbio, che è sacrosanto, ma incertezza sulla validità dello stesso cammino. La scuola in questo senso dovrebbe fornire delle risposte, se non soprattutto degli strumenti. La risposta al desiderio di felicità è personale e attiene al dialogo tra il docente e l’alunno nel quadro di quel “rischio educativo” che non consente né automatismi, né soluzioni prevedibili, ma solo il gioco delle singole libertà. Ma la scuola può predisporre situazioni, ambiti, occasioni perché l’educazione possa accadere attraverso l’istruzione.
Oggi le istruzioni sono aumentate a dismisura. La scuola dell’infanzia si è aggiornata, insegna i linguaggi, il rispetto per l’ambiente, l’organizzazione degli spazi e delle fasi di apprendimento. Si sta inoltre affermando il sistema integrato 0-6 anni, che è un problematico tentativo di rendere omogeneo per tutti il percorso scolastico. La scuola primaria si concepisce spesso come scuola-laboratorio dove gli alunni apprendono confrontandosi. La scuola secondaria di primo grado è il grande motore dell’inclusione e dell’alfabetizzazione. La secondaria di secondo grado è un grande ventaglio di offerte formative liceali, tecniche e professionali. Ogni segmento è stato in questi anni più o meno recenti visto, revisionato, aggiornato per quanto possibile.
Le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo del 2012 hanno rappresentato un compromesso accettabile tra varie culture didattiche e pedagogiche. Vi si affronta il tema della persona come centrale rispetto alle finalità che l’istituzione scolastica intende avere. Si stabilisce inoltre che gli apprendimenti devono regolarsi sul profilo in uscita dello studente e non pretendere che quest’ultimo sia già formato quando entra. Si definiscono le competenze come forme di consapevolezza per le quali gli apporti disciplinari, distinti in obiettivi specifici e traguardi da raggiungere, sono una condizione indispensabile per la crescita. Nel campo dell’insegnamento della “storia”, per esempio, a documentazione di un certo equilibrio raggiunto tra la tendenza globalizzante e quella più prettamente identitaria, si osserva, da una parte, che la storia è strumento che documenta la diversità dei gruppi umani che hanno popolato il pianeta e, dall’altra, che deve essere conosciuta la società mediterranea, greco-cristiana europea, nelle sue fasi di espansione e di condizionamento della cultura mondiale.
Anche i programmi liceali, per non parlare di quelli dei tecnici e professionali, sono stati profondamente rivisti rispetto all’epoca gentiliana e post-sessantottina. Oggi i percorsi liceali si strutturano sulla base delle singole specificità (classico, scientifico, linguistico, ecc.) alle quali se ne aggiungono di nuove in continuazione: per esempio il Made in Italy e l’indirizzo biomedico. Per quanto riguarda i contenuti disciplinari, ai programmi sono state sostituite le indicazioni, che lasciano una certa libertà di impostazione dell’offerta formativa ai docenti.
In altre parole, lentamente ma non troppo sotterraneamente, sul piano dei contenuti una certa rivoluzione in Italia è già avvenuta. I programmi non sono rigidi, i docenti hanno ampia libertà di programmazione e di periodizzazione delle fasi di insegnamento. Sul versante sperimentale e progettuale (che significa soldi e soldi a disposizione) le discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) vanno per la maggiore. È a questo tipo di egemonia che si riferisce la volontà revisionistica del ministro? Vorrebbe riequilibrare l’assetto con più ore di storia e di “umanesimo”? Non sarebbe male, ma perché non chiederlo ai docenti, visto che la suddetta egemonia corrisponde ad un’azione ministeriale e statalistica in qualche modo imposta ai docenti? E come si concilia l’eventuale espansione di cultura umanistica (storia, arte, musica) con l’organizzazione di una scuola nella quale sono aumentate le figure professionali indotte dall’esterno (lo psicologo, il mediatore culturale, il consulente) con inevitabile e progressivo declassamento del docente tradizionale che è diventato un tutor e un orientatore spesso e volentieri “a sua insaputa”?
Per quanto riguarda i contenuti dell’insegnamento, piuttosto che procedere a ricalibrature e riscritture di programmi, perché non mettere in mano la faccenda alle comunità professionali e disciplinari dei docenti acquisendo la loro voce e le loro proposte? E nel frattempo perché non porre mano, dal punto di vista centrale, ad una profonda operazione di ri-organizzazione, riguardante gli spazi della scuola (edifici e aule), i tempi della scuola (forse da prolungare oltre i canonici 200 giorni), l’istituzione di un vero doppio canale liceale e tecnico-professionale?
Non sarebbe il caso, finalmente, di far comprendere ai docenti, interpellandoli e facendoli diventare i veri consulenti del ministero, che si ritiene indispensabile non solo la loro funzione, ma anche e soprattutto la loro vocazione al rapporto e alla comunicazione di un senso attraverso ciò che insegnano?
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