La disfida in corso sulle Indicazioni nazionali (è stata istituita una commissione allo scopo di rivedere gli obiettivi di apprendimento dell’infanzia e del primo ciclo) è per certi versi sconcertante. La scommessa di Antonio Gramsci sull’importanza cruciale dell’egemonia culturale, prima ancora che di quella politica e/o militare, è decisamente il lascito più importante del comunismo italiano e ha fatto scuola. Ma l’orientamento dei cervelli di studenti ed insegnanti può davvero determinarsi a colpi di maggioranza (delle minoranze?) nelle urne? In premessa, è opportuno precisare che la stessa osservazione vale per tutti, anche per gli ispiratori delle Indicazioni nazionali tuttora in vigore, partorite in una diversa temperie politico-culturale.
Si postula che l’orientamento culturale delle Indicazioni nazionali nelle scuole sia in grado di cambiare l’aria del tempo della nostra società. È lusinghiero per le scuole, ma le cose stanno davvero così?
La prima ispirazione degli insegnanti deriva dall’esperienza personale – come ci insegnano peraltro tutte le teorie di carattere psico-antropologico – sia in termini di contenuti che soprattutto di metodi. È ingenuo pensare che pensosi e stressati collegi docenti e susseguenti riunioni di materie compulsino le Indicazioni nazionali per trarne il proprio curricolo, più o meno individualizzandolo. La seconda ispirazione, più potente, deriva dai libri di testo, spesso demonizzati ingiustamente. L’idea che ogni insegnante abbia la capacità e, prima ancora, il desiderio di esprimere, attraverso la sua docenza, una unica e qualificata impostazione culturale è palesemente risibile. Certo, ciascuno ha o dovrebbe avere i propri particolari orientamenti nel merito magari di aree particolari del sapere, e questo potrebbe rendere il suo insegnamento più interessante e coinvolgente. Ma sappiamo tutti quanti danni “a livello micro” ha fatto la famosa libertà di insegnamento, pur doverosa e necessaria dal punto di vista macro del sistema.
In realtà, in questi decenni i libri di testo hanno espresso e aggregato aree ideologiche in modo generalmente dignitoso e spesso eccellente e giustamente sono stati i veri ispiratori degli orientamenti concreti della didattica. I veri programmi, insomma, li fanno i libri di testo e fortunatamente, perché, se ci si dovesse affidare in toto alla famosa libertà di insegnamento… tot capita, tot sententiae e chi mai controlla i “capita”? Pensare che un corpo docente formato da centinaia di migliaia di persone, sia pure in qualche modo laureate, sia in grado di esprimere una personale e soprattutto qualificata lettura della sua disciplina sembra quanto meno utopistico.
E, da ultimo, ciò che conta è l’aria del tempo, per lo più l’aria del tempo della giovinezza e della prima maturità degli insegnanti, ma anche quella che si respira al momento. Per quanto sia poco probabile che un corpo professionale di circa 800mila soggetti sia profondamente in consonanza o comunque a conoscenza, anche oppositiva, di quanto succede nel mondo, è molto probabile che ne sia comunque fortemente condizionato.
In conclusione, chi pensa che le Indicazioni nazionali siano così fortemente condizionanti? Ispirazioni generalissime, terrorizzate dall’idea di essere accusate di assolutismo ideologico e di andare contro la famosa idea della libertà di insegnamento (figlia comprensibile della reazione al fascismo), partorite in epoca di ancora vivace opposizione alle prove Invalsi rappresentate come celle del cervello…
Il fatto che si parli troppo dei dinosauri è vero, ogni nonna dedita all’appoggio scolastico dei nipotini lo può testimoniare. E che sia ridicolo, se non culturalmente e civicamente criminale, che alla fine se ne sappia di più di questi che di quanto è successo nel mondo negli ultimi 70 anni è altrettanto vero. Ma è colpa delle Indicazioni nazionali? Significa dare loro troppo potere di egemonia! Chiunque sia stato nonno sa quale morbosa attrazione i “dini” esercitino: musei dedicano loro aree ben curate, edicole espongono figurine e librettini, nei negozi di giocattoli impazzano famiglie di “dini” ad ogni attività dediti. Sarà l’attrazione per uno strano Pet (come si dice adesso), terrificante ed al tempo stesso domestico, sarà l’importazione delle scienze sociali americane che dedicano molto più spazio alle strutture delle società primitive ed in ricaduta ai primi periodi del mondo che alla storia evenementielle di noi europei? È più una tendenza della società civile che un comandamento normativo e noi italiani continuiamo a non capire che è la prima che comanda e che non sono le leggi che la creano.
Detto questo, indubbiamente le Indicazioni nazionali, soprattutto della primaria – più libere dai condizionamenti dei disciplinaristi – sono state fortemente condizionate a loro volta dall’aria del tempo. Globalizzazione, fluidità, superamento della centralità nazionale ed occidentale, nel nome della famosa teoria della complessità di cui oggi, peraltro, dopo la sbornia nelle aule di formazione, non si sente fortunatamente più parlare. Certamente oggi c’è in Occidente un ripensamento sulla necessità di finalizzare meglio le aperture – senza negarle – e sulla necessità, ma anche sulla utilità per il mondo, di garantire la propria sopravvivenza, a fronte di un mondo legittimamente multipolare ed in crescita anche economica.
Più che al ritorno ad una centralità limitatamente italiana, forse è il caso di concentrarsi sulla geografia, la storia, la cultura europea. Un esempio banalissimo: i nostri liceali escono sostanzialmente ignorando la letteratura francese, inglese, spagnola e tedesca per non parlare d’altro, a meno che non ne studino la lingua. Due anni riservati a Manzoni e tre a Dante andavano bene per un Italia post-risorgimentale che doveva cementare l’alleanza cattolici-laici, ma oggi il tutto sembra un po’ provinciale.
L’idea di affidare il tutto a dei pedagogisti sembra però in strana contraddizione con le ragioni di fondo della revisione. Giustamente prima di tutto i matematici e poi – se ci fossero – gli altri disciplinaristi dovrebbero rivendicare il diritto-dovere di dire la loro. Perché la pedagogia generale ha impazzato ed impazza soprattutto nella scuola di base, sulla base di ideologie iper-inclusiviste e di ipotesi psicologiche che demonizzano ogni tipo di valutazione potenzialmente minimamente penalizzante: ipotesi tutte da dimostrare. Colpa anche della scuola superiore, che si è sostanzialmente disinteressata, se non opposta, nella sua ossessione disciplinaristica, a discorsi ed attenzioni metodologiche, presupposto peraltro necessario ad ogni valorizzazione delle discipline stesse.
Quanto ai resistenti, ai sopravvissuti dei “gloriosi anni 90-2000…”, scandalizzati per l’occupazione di potere, è forse il caso di ricordare che la metodologia è sostanzialmente la stessa… Le vicende dalla Rai ce lo ricordano. Chi di spada ferisce, di spada perisce… Ma siamo sicuri che ci sia una spada?
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