Il 10 settembre è stato presentato il rapporto Ocse “Uno sguardo sull’educazione” del 2019, con i dati relativi al 2017-2018. Un commento adeguato richiederebbe una lettura approfondita, ma già dai dati nazionali riferiti all’Italia si possono trarre una serie di considerazioni, che delineano un quadro non diverso, sostanzialmente, da quello degli anni scorsi.



Il primo rapporto, uscito nel settembre del 1992, era costituito da un unico volume bilingue (inglese e francese), che conteneva una trentina di indicatori su 27 paesi, e aveva come anno di riferimento il 1990. Il volume uscito oggi conta 497 pagine, esamina 46 paesi ed è preceduto da 22 pagine di indicazioni per la lettura. È disponibile al momento in inglese, francese e tedesco. Gli indicatori, molto più numerosi, sono raggruppati in sezioni che riguardano “gli attori dell’educazione, i tipi di obiettivo e i fattori di contesto che influenzano l’educazione”. Negli ultimi anni ogni edizione ha sviluppato un tema particolare, nell’edizione del 2019 l’istruzione superiore di terzo livello: il Rapporto annuale è integrato, a partire dal 2012, da una collana di volumetti tematici, giunta al numero 70, e chiamata “Indicators in Focus”, disponibile in inglese e in francese.



Questo forse noiosa elencazione di dettaglio, che mostra come “Education at a glance” sia ormai da considerare un vero e proprio progetto, e non solo una pubblicazione, per quanto esauriente, spiega come mai questa massiccia e aggiornata raccolta di dati costituisca in molti paesi un punto di riferimento per le politiche educative, così come i risultati dei test su larga scala (per intenderci, Pisa e simili). I dati consentono infatti due operazioni di grande importanza: un confronto internazionale, che permette ad ogni paese di collocarsi all’interno di un quadro comune, ma anche un confronto diacronico, per cui ogni paese può verificare se ha fatto o meno dei progressi, e se ne ha fatti più o meno degli altri paesi, inclusi quelli a lui più simili. Dal punto di vista del ricercatore, è anche interessante cogliere gli andamenti di alcuni fenomeni particolari, come il raccordo fra formazione e mercato del lavoro, o lo sviluppo delle tecnologie digitali.



Che dire dell’Italia? Se nei quasi trent’anni coperti dal Rapporto abbiamo compiuto passi notevoli (basti citare un dato fondamentale: nel 1990 il 72% della popolazione fra 25 e 64 anni aveva al massimo la licenza media, con un valore di 45% per l’Europa: oggi i due valori sono rispettivamente 39 e 21), il confronto internazionale puro e semplice continua a penalizzarci. Per l’istruzione di terzo livello (su cui come ho detto si è concentrata quest’anno l’attenzione) notiamo che il tasso di laureati nelle generazioni sta aumentando: la quota passa dal 19% della classe di età 25-64 al 28% tra 25 e 34. Resta però nettamente inferiore alla media europea, 43%. Negli ultimi dieci anni, siamo passati dal 20 al 28%, ma l’aumento medio europeo è stato, anche se di poco, superiore, dal 33 al 43%. Benché ci sia stato un sorpasso dei laureati donne rispetto agli uomini, 34 contro 22 su cento (erano 24 contro 15 dieci anni fa), il valore delle laureate a livello europeo è esattamente del 50%. Permane una differenza di genere fra gli indirizzi, con una prevalenza maschile nei corsi tecnici e scientifici.

Il divario più netto si ha per l’iscrizione all’istruzione terziaria, con due soli ragazzi che si iscrivono agli Its, contro un valore europeo del 12%: visto che il tasso di occupazione è superiore a quello delle lauree di primo livello (82 contro 73%), ne deriverebbe una chiara indicazione a sviluppare l’offerta, che invece resta stagnante. Quanto all’indirizzo, continua ad esserci, anche se con un andamento lentamente decrescente, un eccesso di laureati nelle discipline umanistiche e nelle scienze giuridiche e sociali, che trovano lavoro meno facilmente dei laureati nelle materie scientifiche e tecniche. Gli studenti stranieri sono il 5% sul totale, contro una media europea del 9%, ma questo dato non è molto significativo, perché abbiamo alcuni paesi “importatori”, tra cui spicca il 18% della Gran Bretagna, e altri “esportatori”, tra cui l’Italia, che però vede emigrare soprattutto laureati e dottori di ricerca.

Quanto al raccordo con il mercato del lavoro, il dato più preoccupante, che vede l’Italia al terzo posto subito dopo la Grecia e la Turchia, è relativo alla quota di giovani 25-29 che non studiano e non lavorano (i Neet), il 26% rispetto alla media Ocse del 14%, con una forte presenza di donne soprattutto fra i più giovani e i meno qualificati. Il dato tende ad essere stabile, o decresce lentamente, ed è particolarmente preoccupante il 10% di inattivi, che non solo non hanno un lavoro, ma nemmeno lo cercano. Poiché per i disoccupati di lungo periodo l’inserimento lavorativo diventa sempre più difficile, sarebbe opportuno assegnare la priorità alle misure per questo gruppo, che ha bisogno di una qualificazione ulteriore, possibilmente collegata alle professioni di difficile reperimento.

Qui però emerge il vero tallone di Achille del sistema, l’inadeguatezza della formazione nel corso della vita, in una società dove la necessità di acquisire ulteriori qualificazioni è diventata cogente. Il dato di 42 adulti su cento che hanno partecipato a programmi formali o informali di qualificazione nei 12 mesi precedenti la rilevazione, più basso della media Ocse (47%) mi pare inattendibile quanto a validità, dal momento che ha partecipato a iniziative formali di qualificazione solo il 3% dei 25-64, e tutti gli altri ad attività informali collegate al lavoro (33%) o anche non collegate al lavoro (14%).

Il settore più valido dell’intero sistema è la scuola dell’infanzia, con un tasso di scolarizzazione del 94%, contro 87% della media Ocse, di cui il 72% in scuole pubbliche, con un investimento pari a circa 7400 dollari equivalenti per bambino, circa mille meno della media Ocse, per un ammontare complessivo pari allo 0,5% del Pil, una delle poche voci che non ha avuto un calo dal 2012 (il calo medio è stato del 9%, solo marginalmente correlato al calo demografico). Il sistema italiano tende a privilegiare le fasce di età più basse: la spesa pro capite per la scuola primaria è pari al 94% della media Ocse, scende a 92% nella secondaria di primo e secondo grado, e addirittura al 74% per l’istruzione terziaria. Pur spendendo meno della media, il costo dello Stato per portare al diploma in tredici anni un ragazzo (cioè senza ripetenze) è di 112.600 euro, a cui si aggiungono i costi direttamente sostenuti dalla famiglie, difficili da quantificare. 

Il capitolo degli insegnanti (come pure quello del successo scolastico) meriterebbe un discorso a parte. Limitiamoci a dire che l’Italia è il paese che ha gli insegnanti più anziani: quasi sei su dieci hanno più di cinquant’anni. L’inserimento massiccio attuato dalla legge 107/2015 “Buona Scuola” ha fatto calare di cinque punti questo dato piuttosto preoccupante, in quanto reciprocamente è bassissimo il tasso di chi ha 25-34 anni, solo 0,5%. Se non cambieranno ancora le norme sul pensionamento, è da prevedere che entro dieci anni la metà degli attuali docenti uscirà dalla scuola: direi quindi che non si tratta di “risolvere il problema del precariato” (propongo l’ergastolo in isolamento per chi dichiarasse che ci riuscirà) ma di affrontare in modo organico la questione della formazione, reclutamento, valutazione e carriera.

Non siamo in grado di prevedere quanti laureati usciranno dagli indirizzi destinati all’insegnamento, se non per i corsi di formazione primaria per la scuola dell’infanzia e primaria, che sono circa il 4% dei nuovi laureati (i corsi sono a numero programmato) di cui il 93% donne. In ogni caso, bisognerebbe provvedere ad un sistema di incentivi per incoraggiare i migliori laureati a restare nella scuola, così come i dirigenti, per i quali la condizione di sofferenza del sistema non è certo risolta.

Questo breve commento non intende essere propositivo, ma solo sottolineare che finora le buone intenzioni di puntare su istruzione e ricerca sono rimaste tali, e i provvedimenti presi (pochi, sporadici e perfino contraddittori) non hanno colmato il divario con gli altri paesi. Eppure, paradossalmente, la nostra scalcinata e trascurata scuola produce punte di eccellenza e diplomati / laureati che trovano all’estero un’ottima collocazione. Si potrebbe, forse si dovrebbe, indagare su come questo sia possibile, per potenziare i fattori di riuscita e ridurre le criticità: ma le riflessioni sui dati Ocse durano il breve spazio della presentazione del rapporto, e non mi pare siano mai state davvero utilizzate per una serio programma di azione migliorativa.