Ogni volta che capitano eventi che manifestano disagio giovanile si cercano inevitabilmente le cause nella società, nelle famiglie e soprattutto nella scuola. Ciò che accade che in alcuni paesi italiani, dinamiche di violenza e vandalismo, dovuti a situazioni di inciviltà, degrado e abbandono, si ripropone anche a scuola in classi complesse dove non si rispettano le regole, non vi è correttezza nei rapporti né tra coetanei, né verso gli adulti. Poiché le famiglie sono assenti o incapaci di occuparsi dell’educazione dei propri figli ci si aspetta che sia la scuola a porvi rimedio, del resto è lì che i ragazzi trascorrono la maggior parte della giornata.
Così, di fronte alla fragilità dei ragazzi, la reazione immediata è puntare il dito verso la scuola: deve intervenire, fare di più, trovare soluzioni e via con provvedimenti tesi a inasprire i regolamenti disciplinari di istituto, con il proliferare di iniziative volte a sensibilizzare sulla differenze di genere, e chi più ne ha più ne metta… Si intensificano gli interventi degli esperti e degli psicologi nelle classi, ma serviranno a qualcosa? Probabilmente qualche efficacia ce l’avranno, ma non lasciano il segno.
D’altra parte i docenti lamentano crescenti difficoltà nel mantenere la disciplina, in particolare nelle nuove classi si fatica anche nel conseguire obiettivi di insegnamento, si è costretti in molti casi a ridurre i contenuti delle discipline insegnate con ricadute sull’apprendimento e la preoccupazione di non raggiungere i traguardi programmati.
Negli ultimi anni si sta riflettendo con continuità sulla qualità dell’insegnamento, sul nozionismo eccessivo, sulla lezione frontale che non risulta più adeguata a favore di altre forme più o meno sperimentate. Si è parlato di “classe capovolta” (flipped classroom) per cui gli argomenti da trattare vengono proposti agli studenti con video introduttivi e altro materiale da consultare attraverso lo studio personale per avviare solo dopo in classe un confronto sugli stessi a partire dalle domande o dalle evidenze emerse. Il docente interpreta così un ruolo da moderatore e gli alunni sono i protagonisti di ciò che imparano.
Altra possibilità piuttosto efficace è la lezione segmentata, che si basa sulla presa di coscienza che i tempi di attenzione sono ridotti per cui gli interventi del docente sono strutturati in quattro momenti, ognuno con un tipo di attività. Innanzitutto la ricognizione delle preconoscenze, poi l’ascolto, che coincide con la presentazione degli argomenti, in seguito attività (discussioni, domande, esercizi di consolidamento), a seguire la restituzione, che è un momento di condivisione, e infine la conclusione, in cui si verificano le conoscenze acquisite (attraverso spunti di approfondimento e attività su aspetti interessanti emersi).
Ulteriore pratica molto in voga negli ultimi anni soprattutto nelle materie letterarie è il writing reading workshop, esperienza nata negli anni 70 in un dipartimento della Columbia University, sperimentata e riproposta in Italia. Essa parte dal presupposto di insegnare attraverso un vero e proprio percorso in cui lettura e scrittura si intrecciano. La lettura di testi integrali offre l’opportunità di lavorare a diversi livelli attraverso momenti strutturati e routinari che diventano col tempo risorsa personale e cioè competenza di lettura e scrittura. È un vero e proprio laboratorio con un focus giornaliero: una breve lezione con uno scopo preciso (grammaticale, di lessico, di scrittura o di comprensione), una proposta di lavoro che viene rielaborata praticando il modeling ovvero imitando il processo messo in atto dall’insegnante, il momento della condivisione con le domande emerse e una sintesi. Questo è solo un accenno sbrigativo che intende incuriosire su un mondo che lavora e sperimenta le possibilità interminabili di questo processo.
L’atteggiamento dilagante dei colleghi docenti rimane purtroppo la lamentela e la polemica contro chi guida la scuola, colpevole di non fornire né strumenti adeguati a chi insegna, né eque e più severe sanzioni a chi sbaglia. Troppi episodi di aggressione verso i compagni o verso gli stessi professori perpetrati da alunni o dai genitori degli stessi hanno contribuito a rendere il malcostume e la maleducazione una costante seppur a malincuore accettata.
La chiave di volta consiste, a mio avviso, in un nuovo inizio; occorre reinventarsi le modalità di azione, partire dall’osservazione e dall’ascolto e provare a sperimentare strategie alternative come operare a classi aperte, promuovere un maggior coinvolgimento, destrutturare l’ambiente in cui si insegna allo scopo di suscitare interesse e partecipazione. Si pone il problema di dove trovare idee e pratiche funzionali, condivisibili e riproducibili.
Ogni anno numerosi corsi di aggiornamento gratuiti e non sono una fonte assolutamente autorevole, anche il ministero mette a disposizione, per la consultazione, le sperimentazioni realizzate in varie scuole (mi riferisco ad esempio alla raccolta “Gold Indire. Le buone pratiche della scuola italiana”).
Per innovare e sperimentare occorre però mettersi in discussione, cambiare il punto di vista ed essere disponibili a provare nuovi percorsi senza rifiutarli a prescindere. La possibilità di aggiornarsi gratuitamente messa a disposizione dal sistema scolastico, di usufruire del buono scuola per corsi a pagamento, offre momenti di confronto e proposte valide. I corsi prevalentemente gratuiti offerti dalle maggiori case editrici scolastiche sono affollatissimi e consentono di conoscere e sperimentare immediatamente quanto proposto. I lavori di tutti i partecipanti restano inoltre a disposizione per la consultazione, così come le slides utilizzate. Vi sono infine convegni e opportunità di aggiornamento in presenza organizzati dalle varie associazioni dei lavoratori del settore, ma anche eventi di massa come l’esperienza di Didacta e il Festival dell’innovazione scolastica di Valdobbiadene, tanto per citarne un paio.
Lamentarsi e rimpiangere i tempi che furono non migliora le condizioni dello stare in classe; è davvero necessario prendersi la responsabilità di agire e rischiare un cambiamento.
Tanto più che sperimentare e innovare non vuol dire affatto rinunciare ai contenuti disciplinari; si tratta piuttosto di proporli in forme sfidanti e interlocutorie in modo che gli studenti si appassionino e non si distraggano non sentendosi chiamati in causa (nella lezione frontale si limitano infatti ad ascoltare, ma la disattenzione è un rischio enorme). Proporre in modo strutturato, per singoli momenti (come la lezione segmentata citata prima), aiuta inoltre gli studenti più fragili, compresi quelli con disturbi di apprendimento ormai numerosissimi, e diversificare i momenti di verifica permette di operare allo stesso tempo recupero e potenziamento, coinvolgendo anche gli studenti più capaci. Una scuola che vuole essere inclusiva non può non partire da queste considerazioni.
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