Faccio una premessa che si basa sull’osservazione. Se pensiamo alle caratteristiche delle famiglie di oggi, ci sono visibili cambiamenti organizzativi rispetto a quelle in cui siamo cresciuti noi; nell’età della scuola primaria, le giornate sono scandite da una serie di impegni ben precisi, c’è un tempo scuola lungo e attività pomeridiane programmate.
I nostri bambini hanno accesso quindi a innumerevoli esperienze formative, attività di gioco e creative ben organizzate e scandite nei tempi e nei modi. Il bisogno di lavorare di entrambi i genitori, oltre a diversi altri fattori, ha visibilmente modificato l’organizzazione settimanale nell’età della crescita. Nelle mie classi io vedo bambini che hanno fatto tantissime esperienze meravigliose, insieme ai nonni, alle famiglie o negli ambienti sportivi e artistici a cui sono stati affidati.
Sono pochi invece i bambini che hanno dovuto sperimentarsi nelle loro capacità (e incapacità) per riempire lunghi pomeriggi vuoti, in giochi creativi, senza essere osservati o guidati.
Quello che mi interessa, citando il cambiamento delle abitudini delle famiglie, è introdurre una domanda che mi sono fatta molte volte: i nostri bambini possono ancora giocare in modo creativo, senza istruzioni, senza scopo prestabilito da adulti, giocare per esplorare, giocare per conoscere attraverso l’immedesimazione, giocare per elaborare e raccontare? Nel tessuto sociale che abbiamo costruito esiste il luogo e il tempo del gioco libero?
Senza giudizi di merito, vorrei solo porre l’attenzione sul gioco creativo come palestra per molti processi di apprendimento futuri, e avanzare l’ipotesi che questa palestra sia venuta a mancare, quindi che i nostri bambini abbiano bisogno di fare esperienze creative che affianchino stabilmente il curricolo scolastico, per attivare connessioni ed elaborare ciò che apprendono. Ecco perché è necessario andare a sfatare alcuni luoghi comuni che ci impediscono di usare le discipline artistiche come vere alleate nel processo educativo.
Primo tra tutti è il pensiero diffuso che l’arte sia per i “capaci” e non invece un linguaggio espressivo fondamentale, al quale ci sentiamo istintivamente chiamati fin dalla nascita.
Siamo infatti tutti dotati di occhi e di mani, sentiamo il bisogno di sperimentarci nella capacità progettuale, cerchiamo naturalmente la bellezza, sentiamo il bisogno di accontentare gli occhi guardando cose belle; e infine, sentiamo il bisogno di poter esprimere in vari modi ciò che più ci piace. L’arte non solo è un canale espressivo ma è anche uno strumento di scoperta.
Quindi, se l’arte è un linguaggio espressivo, può essere insegnato a tutti, e se questo avvenisse stabilmente negli anni della crescita avrebbe una ricaduta su tutti gli apprendimenti. Vediamo di seguito quale dimensione artistica può rispondere al bisogno di educare, crescere con i nostri bambini e far crescere il pensiero creativo.
Intanto bisogna chiarire l’importanza dell’insegnare a seguire un maestro perché conviene. Io trovo che il modo più ricco e che apre maggiormente allo stupore sia quello di lavorare insieme ai bambini, proprio come si faceva nelle antiche botteghe. In quei luoghi meravigliosi si lavorava tanto, ma era il maestro a condurre il lavoro, così come ad avere l’ultimo tocco di colore sulla pittura degli allievi. È molto importante che sia l’insegnante a identificare il contenuto della proposta. Da adulti, diremmo: “non c’è opera d’arte senza una commissione”.
In questo modo sarà più facile chiedere ai bambini di allontanarsi dalle idee che più stanno loro a cuore, le immagini su cui si sentono sicuri e che hanno imparato a disegnare copiando, che vanno abbandonate per imparare a raccontare e scoprire attraverso il disegno. Per cui si portano in classe i contenuti di interesse in quel momento per la didattica o per i vissuti della classe e si chiarisce una consegna uguale per tutti, che dica i tempi del lavoro, il tema del “racconto” e i modi per portarlo a termine, poi insieme si scoprono le strade possibili con le tecniche scelte. Questo modo di lavorare porterà i bambini a sentirsi al sicuro dagli errori, perché se ne farà carico il maestro, inoltre li porterà anche a scoprirsi a vicenda.
Infatti se la consegna uguale per tutti non ha un’unica possibilità di svolgimento, ma prevede progettazione personale, nella classe ognuno in breve tempo svilupperà un modo unico di usare gli stessi colori, il proprio modo di avvicinarsi al lavoro, ognuno mostrerà un lato diverso della stessa storia e così via.
È poi necessario intervenire sui disegni dei bambini. Questo è un punto fondamentale e spinosissimo. C’è un pensiero diffuso che ci suggerisce di non toccare i disegni dei bambini; siccome nel corpo docenti quasi nessuno nella sua vita ha disegnato per ore o ha alle spalle una formazione artistica classica, è praticamente impossibile che ci siano insegnanti in grado di intervenire sui disegni dei bambini senza avere la paura fondata di rovinarli. Per questo motivo e non per altri si è insinuato questo tremendo luogo comune che ci dice di non correggere i disegni, ci dice che quando prendiamo la matita in mano per correggere dobbiamo farlo col contagocce e, se poi cediamo e facciamo un segno, quasi dovremmo sentirci in colpa. Immaginiamo la scena: consegnando la classe a un altro insegnante e mostrando i disegni saremo portati a dire: “Hanno fatto tutto da soli, ho messo mano pochissime volte“, come se questo fosse un bene assoluto. Ma se l’arte è linguaggio, non potremmo paragonarla all’italiano?
Io credo di sì; immaginatevi questi stessi presupposti applicati all’insegnamento dell’italiano. Così come, senza aver mai disegnato, conduciamo ore di arte, immaginate di essere un insegnante straniero che vive in Italia, madrelingua francese ad esempio, per qualche ragione nel nostro paese: il ministero ha deciso che la lingua italiana possa essere insegnata anche da madrelingua stranieri, senza nessun titolo conseguito. Siete nella condizione di aver appreso bene a parlare l’italiano: vivendo per anni in un ambiente molto comunicativo e formativo, altrettanto buona è la comprensione ma sull’ortografia e scrittura nessuno vi ha mai istruito, non ce n’è mai stato tempo. Siete in classe, date una consegna ben fatta, i bambini iniziano a scrivere e vengono alla cattedra con le loro prime frasi un po’ sgangherate, sia voi che loro vi accorgete degli errori perché qualche frase “non suona bene”, ma sia voi che loro non sapete come intervenire, per cui rimandate a posto i bambini con tanti elogi, dite loro che sono stati bravissimi, che non era facile scrivere le prime frasi, che in fondo si sono impegnati tanto. E riconsegnando la classe all’insegnante dell’ora dopo si mostrerà il lavoro di scrittura dicendo: «hanno fatto tutto da soli», non ci ho messo mano.
Con questo esempio vorrei far capire quanto sia fondamentale, per fare una vera esperienza di creatività, che a guidarla sia un insegnante formato, non soltanto un insegnante che ha visto tante mostre e sente un naturale trasporto verso la bellezza (che comunque non è mai poco).
Nelle nostre classi, durante l’ora di arte non si può fare altro che comportarci come analfabeti che insegnano a scrivere: non è colpa di nessuno, anzi immagino la fatica, e non si può negare che si facciano scoperte meravigliose in questo clima di lavoro. Così facendo, però, l’arte resta per pochi e poi, alla scuola secondaria, chi disegnerà ancora spontaneamente?
Quando io sono in aula e passando tra i banchi vedo un viso con gli occhi storti, ci metto poco, niente commenti, nessun elogio a quanto però tutto il resto sia bello: in silenzio lo correggo, e il bambino può proseguire, con la stessa naturalezza con cui ogni insegnante di italiano corregge le doppie o aiuta a riformulare una frase, non per cambiare il pensiero del bambino ma per restituirgliela corretta, e perché lui possa esprimere al meglio quello stesso concetto. Così come non lasciamo una frase sgrammaticata, non si lascia un disegno incompleto; pensate a quante volte si permette ai bambini di non disegnare le mani o il naso perché non siamo capaci di guidarli in quel particolare troppo difficile. Così facendo il disegno rimane qualcosa di infantile, che non è progredito insieme agli altri apprendimenti.
Tornando all’esempio dell’insegnante analfabeta che insegna italiano, immaginatevi se quello studente alle medie potesse scegliere di esprimersi con un’altra lingua: sicuramente lo farebbe. Il linguaggio mai corretto, relegato alla libera espressione, rimane qualcosa di infantile, che non possiamo portarci dietro se vogliamo diventare adulti. Già in quarta e in quinta i bambini che disegnano bene (a detta di tutti) sono tante volte quelli la cui manualità fine si è sviluppata più precocemente, o che hanno una capacità di osservazione più spiccata, ma non per forza sono i bambini più creativi, quasi mai sono i bambini che più avrebbero bisogno di coltivare quel canale espressivo.
Nel modo di lavorare che sto descrivendo, quei bambini così detti bravi spesso vanno in crisi, sono quei bambini che sanno copiare bene e che vengono confermati da tutti, perché hanno imparato a fare disegni molto vicini agli stereotipi più comuni, ma imparare a disegnare è un’altra cosa; spesso questi bambini ci mettono più tempo a fare progressi, perché prima di iniziare a seguire devono scardinare tutta una serie di convinzioni su come si disegna. La mancanza di processi creativi appresi in modo non formale, e della capacità di fare connessioni, deve spingerci assolutamente a esplorare le proprietà educative delle discipline artistiche.
Primo tra tutti, l’arte richiede cura, che è trasversale a tutta l’esperienza di scolarizzazione. Un laboratorio artistico concordato con l’insegnante di classe avrà sicuramente come presupposto basilare la richiesta di un elaborato ben completato, pur dilatando i tempi per ottenere questo risultato. Sappiamo bene come l’obiettivo di stare su un lavoro a lungo, riprendendolo in mano più volte per perfezionarlo, sopportando la fatica di non vederlo subito finito, sia un obiettivo che accompagna tutta la durata della scuola primaria, chiaramente con più livelli di complessità. L’esercizio dell’arte ci fornisce questa esperienza intrinseca ad ogni laboratorio; non c’è lampo di genio o libertà di espressione intesa come liberalismo assoluto (cioè “tutto quello che fai andrà bene”): se vogliamo veder crescere i nostri bambini dentro alla disciplina artistica, dovremo chiedere pertinenza al tema dato, per cui sarà necessaria la revisione e la cura.
Il secondo elemento di interesse, che si introduce nella bottega così concepita, è l’autocorrezione. Sicuramente dovremo insegnare ai nostri bambini a vedere nell’errore, nell’imprevisto, una nuova strada da percorrere, oppure da abbandonare; nel momento in cui si presenta sul foglio, anche se si decide di non esplorarne la novità, dovremo, con loro, fare una valutazione accurata, mai di casualità, valutazione sempre molto importante nel percorso di crescita. Poter guardare l’errore è un obiettivo che possiamo perseguire nel laboratorio artistico, esperienza che sarà facile trasportare negli altri ambiti dell’apprendimento.
Questo però è possibile solo se qualcuno te ne mostra la convenienza; io inizialmente, quando ancora i bambini non conoscono le regole interne del nostro laboratorio, passo tra i banchi e trasformo gli errori in possibilità nuove di lavoro. Lo faccio io per loro, e negli anni ho osservato come diventeranno capaci di farlo a loro volta, in modi sempre meno infantili e casuali ma pertinenti al tema di lavoro. La mia esperienza mi fa dire con certezza che tra gli obiettivi più interessanti da perseguire con la disciplina dell’arte c’è proprio la capacità di guardare gli errori, “tenerli” e trasformarli; io la alleno scegliendo tecniche che permettano all’elaborato di cambiare più volte forma: argilla, gessetti colorati, pastelli a olio, ma anche introducendo il disegno senza gomma, il disegno di progettazione… un tipo di disegno che cerca, che non conosce già il risultato finale insomma, ma che quando lo trova ci stupisce.
Nel tempo i bambini riescono a disegnare senza cancellare, diventano loro stessi capaci di non stracciare il foglio subito se vedono comparire un imprevisto, e si interrogano su come rimediare. Questo modo di lavorare è come un gioco, ha le sue regole interne e uno scopo finale condiviso e chiaro; chiama in causa connessioni, intelligenza e creatività, e nonostante sia faticoso, perché introduce obiettivi lontani dall’istintiva capacità di esprimersi che i bambini sentono, li appassiona. Posso dire per esperienza che lavorare così mette davvero tutti in grado di partecipare, non c’è il bambino più capace o quello a cui disegnare non piace, perché ogni caratteristica diventa preziosa. Il laboratorio artistico così concepito diventa scuola di flessibilità, perché partendo dalle idee espresse di tutti, prosegue con la ricerca della strada migliore, introducendo le categorie di revisione e pazienza.
Infine, vorrei dire che quando chiediamo ai bambini la capacità di staccarsi dalla prima idea e, modificando gli errori, raggiungerne una migliore, rispondiamo a un compito di adattamento che accompagna tutti gli anni della scuola primaria. Il canale artistico, se usato nel modo corretto, porta con sé questa esperienza, e il premio è la bellezza del risultato finale, che stupisce perché non era già previsto, mentre ripaga della fatica.
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