La presentazione dei dati Invalsi 2022 ha avuto luogo il 6 luglio a Roma presso l’Università La Sapienza, alla presenza del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi che ha colto l’occasione per sottolineare l’importanza strategica delle rilevazioni e per evidenziare quale sforzo il suo dicastero stia producendo nell’affrontare una situazione di evidente crisi degli apprendimenti degli studenti. Come supporto per tale impegno il ministro ha richiamato il ruolo determinante dell’intera comunità educante. A preparare il terreno al ministro è stata l’ultima parte della relazione del presidente Invalsi Roberto Ricci, che, nel cercare di evidenziare quali possono essere i rimedi di una situazione di risultati scadenti negli apprendimenti soprattutto nella scuola secondaria che, come è stato giustamente osservato, è imputabile alla pandemia solo in parte, perché si origina da lontano, ha indicato una stagione di miglioramenti nelle prove standardizzate internazionali Timss e Pisa avvenuta all’incirca tra il 2006 e il 2009.

La tesi è che gli esiti in quel periodo migliorarono perché intervennero due fattori: iniziarono le prove Invalsi censuarie e si ebbe un’azione di formazione professionale dei docenti mirata e generalizzata. Il problema è che guardando gli stessi dati ad oggi sembra che al massimo tale miglioramento negli apprendimenti “dopo la felice stagione” si sia stabilizzato, ma certamente non abbia prodotto ulteriori incrementi a distanza di tempo.

Continuare dunque con la formazione dei docenti? Certamente sì, ma senza illudersi che altre criticità permanenti, rilevate infatti anche nel 2022, come i divari territoriali e l’impatto dello status socioeconomico-culturale familiare possano essere affrontati con questo unico strumento, perché non è pensabile che il tutto possa risolversi con l’idea che in certi territori si concentrino magicamente gli insegnanti meno capaci. I territori non sono uniformi e incidono pesantemente sull’educazione informale e non formale con ricadute su quella formale in modi che bisognerebbe accettare, riconoscere e affrontare con maggiore decisione se si vuole mettere a frutto lo sforzo prodotto dall’Istituto in oltre dieci anni di ricerche.

Inoltre è ancora evidente come il calo degli apprendimenti disciplinari di base sia costante, tranne qualche piccola fluttuazione, dalla primaria all’ultima classe della secondaria di secondo grado e anche qui bisognerebbe affrontare una buona volta il mito che il problema degli apprendimenti si concentri soprattutto alla secondaria di primo grado.

Lì inizia ma poi nulla accade nel secondo grado, in cinque anni, perché l’andamento si inverta, anzi i risultati peggiori sono proprio quelli dei nostri studenti maggiorenni, che tra l’altro anche durante la pandemia avrebbero dovuto avere la maturità e l’abilità per rendere più autonomo il proprio studio con la Dad, a differenza di quanto si può correttamente pensare siano in grado di fare gli studenti più piccoli.

L’arresto del peggioramento degli apprendimenti è stato presentato come un dato complessivamente positivo forse perché è dato per scontato che una ripresa degli esiti di apprendimento richiederà comunque tempi lunghi, data l’inerzia del sistema scolastico ad assorbire e metabolizzare i cambiamenti. Fa eccezione l’inglese, e qui si può ipotizzare come possano aver giocato un ruolo due fattori, uno scolastico e uno extrascolastico: il generale allineamento dell’insegnamento e dei testi scolastici verso obiettivi definiti dal  Quadro europeo di riferimento per le lingue, adottato anche da Invalsi, e dall’altro la sempre maggiore immersione dei giovani in un ambiente, pensiamo soprattutto al digitale, che dell’inglese fa la lingua più utilizzata.

Per contro la materia più scolastica che ci sia, la matematica, paga il maggior peggioramento a tutti i livelli oggetto di prove. Una novità della presentazione di quest’anno è stata la sottolineatura delle eccellenze nell’ultimo anno delle superiori, definite tali se hanno ottenuto nelle prove il B2 in inglese e almeno un livello 4, in una scala crescente da 1 a 5, in entrambe le prove di italiano e matematica. Anche per questi studenti si è evidenziato un calo negli apprendimenti, a conferma che a livello generale, soprattutto in alcune materie, anche studenti maggiorenni possono trarre vantaggio dalla frequenza scolastica.

L’idea che il solo interesse intrinseco per l’apprendimento possa fare da leva generalizzata per lo studio e per l’acquisizione di apprendimenti non sembra trarre riscontri oggettivi da questi dati; occorre ancora per molti studenti un ambiente fortemente strutturato e formale per incentivare globalmente l’apprezzamento all’apprendere ed evitare che ci sia in questo caso una possibile dispersione di talenti.

Si è confermata, se mai ci fossero stati dubbi, la relazione tra il numero di studenti eccellenti e il loro status socioculturale più avvantaggiato, nonché il divario territoriale della percentuale di questi studenti nelle diverse macroaree geografiche: questi studenti sono decisamente in numero superiore al Centro-Nord. A complemento del dato sugli eccellenti, abbiamo che gli allievi fragili, che non raggiungono i livelli minimi in nessuna delle tre discipline, è sì in leggerissimo calo rispetto al 2020 ma con la conferma degli stessi divari territoriali: la fragilità è concentrata nel Sud e Isole.

Il peso del contesto sociale di riferimento sugli esiti delle prove è ormai una costante delle rilevazioni e non saranno pochi isolati interventi mirati e di carattere tecnico, sul solo sistema di istruzione, pur se necessari, a invertire la rotta degli apprendimenti in modo deciso. L’impegno delle politiche dell’istruzione deve avere una rinnovata spinta ideale per la valorizzazione dei saperi fondanti della società e per il benessere delle nuove generazioni, che non sia inteso in senso esclusivamente economico, spinta che purtroppo tuttora latita nella politica e nella cultura italiana.

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