Non tutti condividono l’importanza dei dati per riflettere sulle problematiche della scuola. Ne è conferma il giudizio ostile che ancora oggi una parte del mondo scolastico indirizza all’Invalsi, reo di non tenere in dovuta considerazione i presunti parametri qualitativi che compenserebbero alcuni magri risultati d’insegnamento, al netto delle difficoltà territoriali. In anni recenti, la politica non ha nascosto la voglia di disfarsi di quei test “puntigliosi” somministrati ai ragazzi, come se gettar via il termometro sedasse la febbre…



Del resto, ancorché alcuni dati Invalsi siano già a disposizione delle scuole per le attività ordinarie (una parte dei quali confluisce nei Rapporti di autovalutazione, quindi nei Piani di miglioramento e nella stesura dei Piani triennali dell’offerta formativa), la governance scolastica ben difficilmente adotta scelte coerenti con gli stessi. Sono poche le leve che le scuole autonome (e le loro dirigenze) possono muovere per perseguire gli obiettivi del miglioramento. Manca del tutto la leva della scelta dei supplenti (attualmente determinata da graduatorie anonime, che nulla dicono sulle qualità d’insegnamento), è quasi inesistente quella della formazione in servizio (che in molte scuole è completamente decaduta a causa della progressiva demolizione, perseguita dai sindacati, della legge sulla “Buona scuola”) ed è infine pressoché inutilizzabile quella della possibilità di premiare i migliori insegnanti (con il bonus, ad esempio, anch’esso aborrito dai sindacati). Anche la statistica, come l’economia, pare essere una “scienza triste” (Thomas Carlyle) agli occhi di coloro (e non sono pochi) che considerano non molto significativi i dati numerici. In tal senso, per contrastare una tale mentalità, occorre riconoscere il valore di alcune indagini, come quelle di AlmaDiploma, ad esempio, che gettano squarci di luce sulla galassia scolastica, spesso cogliendo aspetti particolari e inusuali.



AlmaDiploma è un’associazione di scuole che, nel corso della ventesima indagine annuale, i cui esiti sono stati recentemente pubblicati, ha intervistato più di 32mila giovani che si sono diplomati nel 2022.

Alcuni item dei questionari si sono indirizzati ad analizzare le attività di orientamento, in uscita e in entrata, svolte dalle scuole. È emerso come gli alunni si lascino fortemente influenzare, nelle loro principali scelte formative o lavorative (se successive al diploma) dai genitori. Il ruolo di questi ultimi è particolarmente influente nel passaggio dalla scuola media a quella superiore. Incide in misura minore, ma pur sempre in modo rilevante, anche nelle scelte post-diploma. Per quanto riguarda le attività di orientamento organizzate dalle scuole, se è vero che esse sono molto diffuse, il loro grado complessivo di efficacia, tuttavia, viene giudicato importante solo dal 48,8% degli alunni.



Relativamente alla valutazione dell’esperienza scolastica pregressa, c’è molta soddisfazione per il dialogo con i docenti e sono considerate come importanti le attività laboratoriali. Un tale giudizio è del tutto coerente con la visione che hanno i ragazzi della scuola ideale, la quale, oltre ad essere ben organizzata, dovrebbe avere particolare cura della relazione tra studenti e docenti. Essa, inoltre, particolarmente per gli alunni dei tecnici e dei professionali, dovrebbe comprendere molte più attività di laboratorio ed extrascolastiche, includendo anche quelle attinenti all’alternanza con il lavoro.

Se tornassero indietro nel tempo, al momento dell’iscrizione alla scuola superiore, il 55% circa dei giovani diplomati rifarebbe la stessa scelta. Il dato può essere letto in termini positivi, visto che più della metà confermerebbe la propria opzione, ma anche in termini critici, perché il restante 45% oggi non compirebbe la stessa scelta. Coloro che pongono in discussione il loro percorso di studi sono pur sempre molti.

Per quanto riguarda le attività di educazione civica, esse sono diffuse in quasi tutte le scuole e generalmente registrano un ampio consenso tra gli alunni, ancorché questi ultimi richiedano ulteriori approfondimenti in tema di sviluppo sostenibile e di educazione, conoscenza e tutela del patrimonio ambientale, a conferma del fatto che i giovani odierni, più di quelli delle generazioni passate, possiedono una chiara consapevolezza dei rischi che corre il nostro pianeta.

Molto interessanti, infine, sono gli item indirizzati ad analizzare il rapporto che gli alunni hanno avuto con la didattica a distanza, adottata dalle scuole (non tutte) nel periodo del lockdown. Se la stragrande maggioranza degli alunni (il 72,3%) riconosce ad essa una minore efficacia rispetto a quella effettuata in presenza (ritiene cioè che la preparazione raggiunta sia stata inferiore rispetto a quella che avrebbe raggiunto se non ci fosse stata l’emergenza), il 36,5% giudica che sarebbe utile continuare ad usarla. Addirittura la quota degli alunni dei tecnici favorevole al mantenimento di una tale didattica è di poco inferiore al 40%.

Sul piano interpretativo, dunque, se è facile dedurre che c’è una forte maggioranza a favore del ripristino della tradizionale didattica, non lo è altrettanto fare i conti con coloro che sono a favore del mantenimento della Dad, il cui giudizio pare sostanzialmente divergere dalle scelte ministeriali e sindacali assolutamente negazioniste. Ancorché il terzo degli alunni a favore rappresenti una netta minoranza rispetto alla restante percentuale, esso è comunque un dato significativo, considerato il fatto che la Dad è stata sviluppata senza che vi fosse una adeguata preparazione tecnica e didattica da parte dei docenti. In conclusione, c’è da chiedersi se la didattica a distanza, qualora vi fossero altre condizioni attuative, sarebbe comunque inutilizzabile, come vuole il mainstream scolastico, oppure no, come invece suggerirebbe il buon senso.

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