Cento anni fa, tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, nelle stanze del Palazzo della Minerva, l’ex convento dei Domenicani, in Roma, oggi sede della Biblioteca del Senato (allora ospitava il ministero della Pubblica Istruzione) un ristretto manipolo di studiosi guidati dal filosofo Giovanni Gentile elaborò quella che è forse la riforma più nota della storia scolastica italiana: la riforma che prese il nome del filosofo che Mussolini aveva voluto al proprio fianco nel suo primo governo.
Gentile e Mussolini fino a quel momento non si erano mai incontrati e la loro collaborazione fu favorita da “ambasciatori” di entrambe le parti, spinti da ragioni diverse pur convergenti nella critica all’Italia giolittiana. Quanti erano vicini a Mussolini sollecitavano il capo del fascismo ad arricchire il suo governo con una personalità di grande autorevolezza nella vita culturale di quegli anni. Giolitti aveva coinvolto Benedetto Croce nell’ultimo suo governo, poteva Mussolini essere da meno?
Coloro che parteggiavano per Gentile e con cui si battevano per rinnovare la scuola erano convinti che finalmente si presentava l’occasione idonea per dare all’Italia una scuola libera da incrostazioni positivistiche e, attraverso la sua rigenerazione, rendere migliore la società italiana, sottrarla alle sirene dell’utilitarismo e del materialismo. Gentile accettò a due condizioni: che cessassero immediatamente le violenze che avevano insanguinato il seguito della marcia su Roma e che gli fosse lasciata mano libera nella riforma scolastica.
Contrariamente ad un’opinione ampiamente ed erroneamente diffusa, la riforma di Gentile (e per la scuola elementare il geniale riordino predisposto da Giuseppe Lombardo Radice) non fu affatto una “riforma fascista” e la sua genesi fu ben anteriore alla creazione dei fasci mussoliniani. Essa va cercata invece nelle discussioni che si susseguirono nel primo quindicennio del Novecento sullo scadimento della scuola (specie quella secondaria) del tempo. Giovani intellettuali di varia ispirazione – liberali, vociani, nazionalisti, cattolici, qualche socialista – affascinati dalla filosofia e dalla personalità del filosofo siciliano furono con lui concordi nel denunciare l’illusione positivista che il “progresso” e il perseguimento dell’utilità economica potessero rappresentare la bussola ideale e morale della società.
Il decadimento di una scuola senza alti ideali era testimoniato, secondo i gentiliani, da fenomeni che avevano tolto alla scuola l’antico prestigio che risaliva al rigore dei collegi gesuitici: l’esasperata ricerca del “pezzo di carta” da raggiungere a ogni costo, anche senza merito, l’esame facile, la mediocre qualità dei docenti spesso improvvisati e il tutto condito dalla preoccupazione delle famiglie di aiutare in ogni modo i figli a salire sull’ascensore sociale. Una scuola, insomma, dominata dall’individualismo e dall’utilitarismo.
I fascisti in genere e soprattutto quelli intransigenti non amarono né Gentile né la sua scuola (lo stesso Mussolini dopo il 1929 ne avrebbe sollecitato il superamento) che giudicavano troppo severa e non coincidente per il suo sostanziale liberalismo con l’impronta autoritaria del regime. Le avrebbero ben presto opposto un modello educativo del tutto diverso, le cui radici affondavano nelle esperienze belliche dell’arditismo e nelle visionarie intuizioni futuriste. Anziché faticare sui libri i giovani sarebbero dovuti crescere mediante l’esercizio fisico, la pratica sportiva e la formazione militare, l’esaltazione della lotta come misura del coraggio: le qualità insomma richieste allo squadrista piuttosto che allo studente.
Come i più recenti studi condotti su questi temi hanno ormai inequivocabilmente dimostrato, il fascismo maturo sentì come “sue” più l’Opera Nazionale Balilla e la Gioventù Italiana del Littorio – nei cui reparti paramilitari i giovani (non tutti, perché più d’uno sgarrava) venivano inquadrati nel loro tempo libero – che la forza disciplinatrice della cultura, e cercò di liberarsi, peraltro senza riuscirci, della scuola gentiliana.
Gentile e i suoi avevano un’idea quasi religiosa della scuola che nulla spartiva con il movimentismo fascista, un’idea severa e rigorosa, al servizio – come si diceva allora – della “Nazione”, e cioè di una idealità che oltrepassava le aspettative dei singoli e s’inverava nello Stato etico: la scuola doveva essere la palestra nella quale i giovani apprendevano non solo il sapere colto (la scuola liceale) e le conoscenze necessarie per un’attività professionale (l’istruzione tecnica), ma anche – e soprattutto – uno stile di vita improntato a valori ben interiorizzati. Questo patrimonio li avrebbe dovuti accompagnare nella vita adulta, dando un senso al loro essere cittadini.
L’educazione nazionale doveva coincidere, attraverso la maturazione della coscienza filosofica, con la formazione morale, il vero centro della riforma.
Gentile era fermamente convinto che soltanto un popolo nutrito di una cultura radicata nella tradizione e non in balia dell’ultima moda – nel senso, dunque, di un sapere non fine a sé stesso ma trasferito e reinventato nella realtà quotidiana – era un popolo destinato a progredire, in grado di affrontare e risolvere i problemi, educato non solo a rivendicare diritti ma anche a onorare i doveri che la convivenza umana comporta. Nel restare aderente alla mentalità del tempo il filosofo siciliano era convinto che il compito della “rinascita nazionale” toccasse al ceto borghese e che proprio l’indebolimento morale della borghesia (che egli in larga misura faceva coincidere con il suo impoverimento culturale e con la ricerca dell’utile immediato) era una delle ragioni della fragilità della nazione.
Molta attenzione il filosofo riservò ai doveri dei docenti (I nuovi doveri si intitolava una rivista realizzata con Lombardo Radice e uscita tra il 1908 e il 1911). Attraverso il suo comportamento l’insegnante doveva essere il modello cui gli allievi avrebbero dovuto conformarsi. La qualità morale e culturale di maestri e professori era perciò la condizione prima perché la scuola conseguisse i suoi obiettivi. Da qui il rigore con cui il ministro predispose i concorsi attraverso cui reclutare i docenti.
Gli studiosi hanno indagato pregi e limiti della riforma, compresa la capacità di resistere ben oltre la fine del regime. La riforma gentiliana fu politicamente conservatrice, ma culturalmente liberale, statalista ma non fascista, severamente selettiva, socialmente classista, pensata principalmente per rigenerare la borghesia del tempo, ma poco o nulla attenta alle aspettative dei ceti popolari, per i quali le uniche possibilità di scolarizzazione erano il quinquennio elementare ampliato, nel migliore dei casi, a corsi di studio pratico senza sbocchi. Sintomatico è il fatto che i corsi che avviavano i giovani direttamente alle professioni fossero affidati alle competenze dei ministeri economici e non a quello dell’istruzione.
Soltanto la scuola di massa, e cioè l’ampia scolarizzazione che dagli anni 60 affollò le aule, riuscì a metterla definitivamente in crisi, per quanto alcuni tasselli dell’impianto gentiliano resistano – incrollabili – ancora oggi come, ad esempio, il mito del liceo classico come la scuola per definizione “dell’eccellenza” e la gerarchia che si perpetua in molti – in ragione di questa presunta eccellenza – nel giudicare il valore formativo e culturale delle altre tipologie scolastiche.
Della riforma Gentile oggi constatiamo ed ammiriamo la perfetta corrispondenza tra lo spirito animatore e la realizzazione pratica, ma non possiamo certamente prenderla come un modello cui ispirarsi. La riforma di cent’anni fa è archiviata negli annali della storia, una grande fotografia per cogliere la temperie di un’epoca, insomma un tema ormai delegato a quanti si cimentano con la ricostruzione dell’Italia del primo Novecento.
(1 – continua)
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