In Italia il successo dei licei (scelto dal 57,8 % degli studenti di terza media) è in buona parte dovuto alla maggiore cura dell’impianto didattico e dalla buona capacità di raggiungere risultati formativi più alti. Sembra poi che gli istituti tecnici e industriali abbiano bisogno di una riorganizzazione per sostenere la formazione di personale specializzato che sia  all’altezza del terziario avanzato di cui il mercato del lavoro ha fortemente bisogno. Una riforma della “scuola di mezzo” che sappia conciliare preparazione tecnica, rigore scientifico e aspetti culturali, che la rilanci e la metta in relazione alla Formazione tecnica superiore, il settore dell’istruzione post-diploma che, con un’alta occupabilità, a differenza di altri paesi europei come la Germania, da noi non è ancora decollata.  



Il punto debole sono gli istituti professionali, abbandonati a se stessi, di cui la classe dirigente italiana conosce a mala pena l’esistenza. Quando i politici e i giornalisti si occupano di scuola, di esame di maturità, non vanno mai oltre il raggio dei licei e dei cosiddetti “tecnici”. I ministri dell’Istruzione ne sanno ancora meno e forse, perché spesso provenienti dalle università, non hanno gli strumenti per occuparsene.



L’ultimo madornale errore si è verificato quando nel 2017, con il decreto legislativo 61, volendoli migliorare e adeguare alla scuola statale, sono stati definitivamente affossati. Infatti il percorso di studi è stato portato a 5 anni, con un biennio comune e un triennio di specializzazione (11 indirizzi previsti). Così quegli studenti che a scuola ci vogliono andare il meno possibile sono stati costretti a frequentare 5 anni di superiori per ottenere un diploma professionale. Sono anche stati costretti a sostenere un esame di Stato, loro che invece hanno il desiderio di imparare un mestiere. La famosa licenza professionale che una volta si acquisiva in 3 anni è stata abolita. Era invece l’unica possibilità di avere una scuola flessibile, uno sbocco nel mondo del lavoro a bassa qualifica, di cui c’è estremo bisogno nel nostro paese che invece di adeguare le idee alla realtà, nel settore scolastico fa sempre l’opposto: piega la realtà alle idee.



Il risultato è sotto gli occhi di tutti: iscrizione ai professionali solo del 11,9% dei 14enni, altissima dispersione scolastica, ghettizzazione nei professionali delle fasce deboli e dei figli degli immigrati

In realtà nel 2017 c’era un motivo per statalizzare i professionali. Era necessario superare il doppione delle scuole di formazione professionale, che sono di competenza regionale e permettono un inserimento rapido nel mondo del lavoro. Hanno una durata del corso di studi di 3 anni, al termine dei quali viene conseguita una qualifica professionale. Sono corsi da cui è possibile scegliere di frequentare il IV anno e ottenere un diploma di tecnico oppure passare agli istituti tecnici o professionali di Stato per proseguire ulteriormente gli studi. 

Sulla carta poteva funzionare, ma nella realtà si è verificato un duplice risultato negativo: da una parte i professionali sono stati disertati e dall’altra la formazione professionale, affidata a una selva di enti di formazione, accreditati con metodi non uniformi, spesso in competizione tra loro per accaparrarsi finanziamenti e corsisti, senza adeguati monitoraggi sui risultati conseguiti, non ottiene i risultati sperati.

Le regioni con tessuto produttivo più forte ottengono standard accettabili con centri formazione ben strutturati, in quelle meno organizzate gli enti ricevono finanziamenti ma non offrono standard formativi adeguati e molti corsi si sono trasformati in una sorta di ghetto, con risultati di inserimento lavorativo molto al di sotto della media. Nel 2004 i professionali erano scelti dal 27,4% (come detto oggi siamo al 12%) degli studenti, con più di un dimezzamento in 15 anni che pare non preoccupare nessuno, mentre gli iscritti alla formazione triennale nel 2019-2020 erano solo 36mila ragazzi, pari al 6,6% degli iscritti alla scuola secondaria.

Insomma i dati sembrano dire che nell’ultimo decennio Stato e regioni hanno fatto un flop generale nel settore professionale, che va di pari passo con la marginalizzazione del settore produttivo. O l’Italia non ha più bisogno di operai, per cui l’istruzione e le regioni non se ne devono più occupare, oppure il rilancio produttivo deve necessariamente passare per una profonda revisione del sistema. Allora bisogna reinventarlo non più con due branche della formazione divisa tra Regioni e Stato, con spreco di risorse e risultati scadenti. Ci vuole una sola organizzazione, in forte sinergia tra gli attori, dotata di ampia autonomia, sia didattica che organizzativa, contratti per il personale docente e dirigente separato dal Ccnl del settore istruzione.

Perché una tale rivoluzione? Sinora i docenti e i dirigenti degli istituti professionali sono inquadrati in base alle graduatorie statali, che come è noto attribuiscono garanzie e compiti uguali per tutti. È però noto che per molti svolgere la docenza nei professionali è un di meno, un accontentarsi dei pochi risultati ottenuti in cambio di una minor pretesa da parte dell’istituzione scolastica. Non è facile infatti insegnare matematica, meccanica o italiano negli istituti in cui sono presenti analfabetismo, scarsa capacità di apprendimento e spesso gravi problemi disciplinari. Anche i presidi, quando non sono motivati, se possono scappano e spesso, dopo un incarico triennale, chiedono di essere assegnati a scuole “più alte”.

A molti nei ministeri e nella Commissione cultura e istruzione del Parlamento sfugge che insegnare o dirigere scuole più difficili, con altri gradi di marginalità, microcriminalità, spesso tossicodipendenza, ci vuole una forte motivazione e l’aiuto di strumenti normativi e finanziari più consistenti. Nei professionali le regole uguali per tutti, tipiche della scuola statale italiana, non funzionano. Per operare in queste realtà ci vogliono alti livelli motivazionali e retributivi e specifici investimenti in attrezzature ed edilizia scolastica. Il corpo docente poi deve essere sostenuto da équipe socio-pedagogiche e assistenziali che sappiano mettere le mani in realtà ad alto rischio sociale, in cui educazione e famiglia sono passate in secondo piano. Dove si fa più fatica è il buon senso a insegnare che ci sia bisogno di più cura. 

Il modello per adeguare gli istituti professionali potrebbe essere quello già adottato dal ministero dell’Istruzione per la Formazione tecnica superiore, che è strutturata con fondazioni ad hoc nel cui board ci sono esponenti degli uffici scolastici, delle aziende e degli enti territoriali, con ampia autonomia organizzativa e di scelte formative. E infine una seria valutazione degli standard formativi e occupazionali diventa assolutamente necessaria. Non quella dell’autovalutazione della legge 107 del governo Renzi, che dopo i primi fuochi di paglia sembra definitivamente tramontata. 

Ci occuperemo di come funzionano le fondazioni della Formazione tecnica superiore in un’altra puntata.

(2 – continua)  

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