Due settimane fa ho chiuso il mio ultimo articolo su questo quotidiano esprimendo il senso di rabbia e di vergogna che mi avevano accompagnato durante la sua stesura. Il tema era quello della istruzione e formazione professionale e sulla condizione in cui oggi sono ridotti gli istituti professionali. Istituti che, come i dati sulle iscrizioni del prossimo anno confermano, sono ovviamente in graduale e inesorabile calo. La mia rabbia e la mia vergogna erano e sono il frutto di come, da decenni, la formazione professionale, salvo poche isole felici, è stata trattata dai politici e dalla politica. Sfido chiunque a citare un programma elettorale di un singolo partito o di una qualsiasi coalizione che esprima un progetto serio, approfondito, chiaro e fattibile per risollevare la drammatica situazione della scuola italiana e, in particolare, proprio di quel settore che è la sua cenerentola: la formazione professionale.
Rabbia e vergogna, ma non rassegnazione se si crede, come lo credo anch’io, che il lavoro manuale, se ben fatto, al pari di qualsiasi altro lavoro è in grado di formare generazioni di donne e di uomini indispensabili al miglioramento della nostra economia e del nostro, anch’esso sempre più povero, patrimonio civile e civico. Questo dovrebbe essere il ruolo anche della formazione professionale che, in quei Paesi europei e in certe aree italiane dove funziona, contribuisce non a caso in maniera rilevante a non disperdere un patrimonio umano e professionale d’importanza vitale, soprattutto per garantire anche una vita decorosa alle persone che vi si impegnano.
È davvero urgente recuperare la vera formazione professionale e liberarsi da tutte quelle consolidate posizioni ideologiche e populistiche che l’hanno snaturata. Torniamo ad offrire ai ragazzi percorsi formativi dove l’esperienza pratica abbia il sopravvento sulla cultura cosiddetta astratta, limitando quest’ultima a poche essenziali discipline di base e, in quanto tali, assicurandoci che siano davvero trasmesse in modo tale da diventare un reale patrimonio degli studenti. Nessun percorso scolastico è inferiore ad altri se sappiamo intercettare e valorizzare le intelligenze e le vocazioni dei ragazzi.
Questo, purtroppo, non accade da tempo nei professionali e la conferma è palese, visto che in questo indirizzo si disperde la maggior parte dei nostri studenti, spesso destinati, fin dai 14 anni, a diventare, nell’indifferenza della maggior parte della classe dirigente, dei Neet. Un misto, cioè, di fantasmi e di disagiati o, nello stesso tempo, di entrambe le cose. Eliminiamo finalmente l’equivoco di un indirizzo che dovendo preparare alle “arti e mestieri” è invece soffocato da confusi carichi di ogni tipo, a partire, come è risaputo, dall’alto numero delle materie e, a seguire, da quello burocratico. Chi ha lavorato o lavora in un istituto professionale è consapevole di come la stragrande maggioranza degli studenti espulsi in virtù di ripetenze o costretti ad abbandonare anche nel corso del primo anno per accumulo di frustrazioni, nelle poche ore destinate alle attività pratiche si senta invece pienamente motivata, realizzata e rispettosissima delle regole. Ma in questo Paese, coloro che hanno in mano il destino dei giovani evidentemente preferiscono che ve ne siano milioni (precisamente due milioni tra i 15 e i 34 anni) abbandonati a sé stessi piuttosto che venir meno ai propri dogmi “educativi”. Infatti, molti di questi addetti ai lavori, spesso mai entrati in un’aula scolastica o che ne sono fuggiti barcamenandosi poi, pur di non rientrarvi, tra commissioni e multiformi incarichi, sostengono che destinare dei quattordicenni ad un percorso esclusivamente professionale sia un’operazione assolutamente inaccettabile perché classista in quanto, secondo loro, questa scelta avverrebbe in una età troppo precoce.
Intanto le percentuali della dispersione scolastica, e conseguentemente dei Neet, sono in continua crescita e su questo evidentemente ci si preoccupa molto meno. Né tantomeno ci si preoccupa di coloro che scelgono i tecnici e i licei costretti anch’essi a farlo a 14 anni e pure loro con la prospettiva di non tornare indietro rispetto alla scelta fatta. D’altra parte a ciascuna età corrispondono in genere degli apprendimenti precisi. Perciò, tanto per fare un esempio, si può iniziare a studiare latino e greco anche a 16 anni ma forse lo si impara molto meglio se lo iniziamo a studiare qualche anno prima. Lo stesso principio vale anche per la formazione professionale. Avere delle basi solide e crescere con la consapevolezza che anche il lavoro manuale serve a formare degli uomini ancora più uomini, per dirla con Vittorini, rappresenta realmente una grande opportunità, peraltro dotata di molte implicazioni culturali. Purtroppo non è quello che in generale si offre ai nostri ragazzi. Ridotti così come sono, gli istituti professionali sembrano servire ad alimentare in loro confusione e voglia di fuga. Purtroppo non solo dalla scuola.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI