Effettivamente non ci sono parole per esprimere lo sconcerto dinanzi alle pagine dedicate agli interventi riformatori previsti per il sistema di istruzione e formazione inseriti nel Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, presentato al Consiglio dei ministri del 12 gennaio 2021. Scenografia. Forse cinico trasformismo lessicale che non si capisce, però, se ispirato alla grande scuola di dissimulazione delle Frattocchie o, semplicemente, all’insostenibile leggerezza delle parole e dei concetti della lingua mainstream ministerial-sindacale e dei mass media lontana mille miglia dalla sostanza delle questioni.



Comunque è come se 50 anni di studi e ricerche rigorose, ancorché di differente provenienza culturale, sui problemi della nostra scuola fossero sconosciuti a chi ha redatto queste pagine. O li abbia astutamente ignorati in nome della razionalizzazione dell’immobilismo viscerale che ha seppellito negli ultimi trent’anni qualsiasi tentativo di innovare mentalità, strutture e routine consolidate del nostro solito tran tran scolastico.



Se questo testo è migliore di quello che il governo non si era vergognato di presentare prima che Renzi puntasse i piedi sulla sua pochezza, si può immaginare il livello qualitativo della precedente versione e l’improntitudine di chi lo voleva addirittura spendere in Europa come segnavia del futuro del nostro paese e della “qualità della scuola come asset fondamentale del rilancio culturale, sociale ed economico dell’Italia”.

Nel testo del 12 gennaio, infatti, si trova soltanto una strategia chiarissima ancorché nascosta sotto nuvole di fraseggi evasivi: fare tanto fumo per non cambiare di una virgola l’arrosto che le consorterie amministrativo-sindacali ci stanno cucinando in modi diversi, ma sempre con gli stessi ingredienti da decenni. Come se il nostro sistema di istruzione e formazione fosse il più bello, utile, efficace, equo e democratico al mondo, bisognoso perciò solo di interventi manutentivi. Ecco perché nel Piano troviamo le solite generose mance a pioggia distribuite a debito sulla pelle di figli e nipoti per oliare un po’ meglio i severi custodi dell’ordine costituito e per guadagnare al sistema scolastico che abbiamo ulteriore consenso non solo, per usare la terminologia marxista, a livello di struttura, ma anche, e ancora di più, di sovrastruttura. Scoraggiante. Altro che tradimento dei chierici. Parlare di classe dirigente o di élite manageriale capace di visione e di responsabilità, in questo contesto, è un abuso.



Per cui non sorprende che il Piano non prefiguri una nuova formazione degli insegnanti, nonostante gli eloquenti e irreplicabili insegnamenti offerti in proposito anche nel solo ultimo anno appena trascorso. Invece, la solita minestra riscaldata. Si parla, ad esempio, di lauree professionalizzanti, ma non esiste la proposta di una laurea magistrale professionalizzante (cioè abilitante) per l’insegnamento. Si parla, ancora, di aggiornamento permanente, ma, pur di mantenerlo nella greppia clientelare che l’ha sempre finora governato, ci si dimentica di legarlo a doppia mandata ad una relazione costante, sistematica e coevolutiva tra scuola e università proprio in vista delle lauree abilitanti all’insegnamento. Si parla di favorire il ringiovanimento della Pa e l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ma ci si guarda bene dal ricordare che proprio chi vuol diventare docente deve oggi sottostare ad una formazione iniziale ancora ferma ai paradigmi del peggior fordismo culturale novecentesco che crea insegnanti in serie già fuori mercato.

Ovviamente, niente di nuovo anche per il sistema di reclutamento farraginoso e centralista che serve magnificamente da 75 anni per eternare il precariato e per permettere ai potenti di turno elettorale di ottriare la grazia dell’entrata nei ruoli ben oltre la media di 43 anni. Come se lo spettacolo indecoroso allestito sempre quest’anno a sintesi di una proliferante, pluridecennale teratomorfia condita di concorsi non fatti, concorsi riservati, sfacciate ope legis, profluvio di precariato, docenti di sostegno raccattati tra chiunque e dovunque non fosse mai esistito.

Allo stesso modo, niente campus per il secondo ciclo. Ovvero niente superamento della rigida organizzazione militare degli studenti per classi e sezioni; niente superamento di un organico dei docenti ancora predisposto come nel secolo scorso, cioè fatto apposta per adattare a sé gli studenti, non per assicurare, come servirebbe, il contrario; niente superamento della storica gerarchizzazione socio-educativa e culturale esistente tra licei, istituti tecnici, istituti professionali; niente quindi ridisegno della distribuzione territoriale di questi percorsi: non sono bastati, in proposito, ad esempio, i due anni persi dagli studenti perché l’allocazione delle scuole secondarie secondo la tipologia gerarchizzata e separata prima menzionata rende impossibile un sistema dei trasporti effettivamente compatibile con le norme sanitarie per raggiungerle; niente, nemmeno un’indicazione di volontà, in tema di progressiva ristrutturazione dell’edilizia scolastica nella direzione di garantire agli studenti una personalizzazione maggiore degli ambienti, dei percorsi, delle esperienze di apprendimento, delle relazioni con i docenti (c’è solo un condivisibile omaggio al green fatto però rigorosamente sugli edifici esistenti); niente infine concezione integrata tra tempo scuola e tempo extra-scuola non solo sociale (iniziative formative, culturali e sociali del territorio, impiego di musei, auditorium musicali, teatri, cinema, centri sportivi, piscine eccetera), ma anche professionale (esperienze mirate di stage, laboratori, centri di ricerca e lavoro in imprese e servizi). La logica rimane sempre quella di una scuola claustrale e autosufficiente, quasi che l’integrazione tra percorsi di apprendimento formali, non formali e informali sia da rimandare a quando essa è finita.

Per questo parlare di Stem, come in teoria sarebbe giusto e innovativo fare, in questo contesto è soltanto la rassicurazione che si assisterà ad un ulteriore gonfiamento degli organici di docenti fordizzati con rigorosa tessera dei sindacati scuola, nemmeno confederali. Ed è sempre per questo che il Piano ha addirittura censurato qualsiasi accenno allo sviluppo del sistema duale introdotto nel 2003, potenziato nel 2008 e rilanciato nel 2015, ma sempre boicottato per farlo abortire o per sottoporlo all’infanticidio: il riferimento è alla possibilità di compiere in apprendistato formativo di I e III livello tutti i percorsi di qualifica, diploma secondario e superiore (Its), laurea, laurea specialistica, dottorato.

Il che aprirebbe davvero, e non nella consueta e inane retorica mainstream, l’incontro tra ricerca aziendale e scolastica, tra cultura e professione, con reciproco vantaggio. Ed è sempre per questo che la concezione del tempo pieno per le scuole del primo ciclo di istruzione che emerge dal Piano resta quella del secolo scorso: una specie di caserma custodiale quotidiana, con dentro un’organizzazione uniforme settimana dopo settimana. Solo un modo, quindi, per aumentare gli organici, non per mettere al centro gli studenti e i loro percorsi di apprendimento personalizzati.

Niente scelte strategiche anche sugli Its. Che vuol dire “potenziamento”: che da 8mila iscritti dovranno passare a 800mila come in Germania? In che tempi e modi? Con quali interventi ordinamentali? Che saranno, nei campus del secondo ciclo, il segmento superiore di una filiera di istruzione e formazione secondaria capace di produrre alta e qualificata formazione professionale, legata al tessuto produttivo e ai territori o che resteranno dolmen di prateria come sono ora? Che dovranno o non dovranno essere etimologicamente in competizione con le lauree professionalizzanti?

Sulla digitalizzazione c’è in verità molto. È un bene. Era ora. È dal 2001 che si doveva cominciare. Meglio tardi che mai. Ma il passaggio al digitale non è tanto o soltanto, sebbene sia importante, una questione di device, di rete o di fibra ottica per tutti. Richiede uno “stacco” di pensiero, di formazione, di riorganizzazione a tutti i livelli del sistema di cui non c’è alcuna traccia. Il digitale non ha niente da spartire, ad esempio, con la Dad che è stata taumaturgicamente ammannita in questi tremendi due anni che resteranno indelebili nelle memorie dei nostri giovani. Richiede una formazione iniziale e in servizio, un reclutamento, un ordinamento degli studi in presenza e in e-learning, una didattica della presenza e della distanza dentro e fuori il sistema scuola che non ha nulla da spartire con quanto oggi c’è. Viceversa le potenzialità di un sapere che sarà sempre più il risultato di un’interconnessione critica, e non solo strumentale, fra pratiche di oralità, scrittura e cultura audio visuale nell’agire personale e sociale delle persone restano compromesse.

Un’ultima annotazione. Nonostante la globalizzazione, quella ideologica, quella economica e quella epistemologica (la crescita esponenziale delle teorie della complessità); nonostante la rivoluzione del digitale a cui si è accennato; nonostante l’incontro sempre più ordinario tra culture differenti e, alcune volte, perfino tra loro incompatibili; nonostante il ridimensionamento sovrastatuale dei diritti e delle prerogative dei tradizionali Stati nazionali; nonostante questi scenari si finge di poter affrontare l’idea di scuola dei prossimi decenni senza aver preso di petto una questione cruciale.

La scuola del cittadino, quella che Rousseau dava già per pedagogicamente, non certo politicamente e ideologicamente morta nel 1762, ovvero la scuola dello Stato nazione, può essere ancora un orizzonte strategico su cui puntare, oppure va accolta a quasi due secoli di distanza la strada sempre indicata da Rousseau come l’unica pedagogicamente percorribile, ovvero quella che sposa il paradigma della scuola della persona umana? Se la prima, diceva il ginevrino, non contiene la seconda, la seconda ha come effetto collaterale, peraltro molto efficace, di contenere anche la prima. Puntando su uomini ben formati, con la testa ben fatta e attenti alla crescita integrale di sé si potranno ottenere anche cittadini di qualsiasi parte del mondo molto più razionali, liberi e responsabili. Quindi deve essere la personalizzazione il fulcro su cui dovrebbero ruotare tutte le iniziative di un Recovery Plan degno del terzo millennio.

Ma forse, per citare il Tolkien della lecture sulle fiabe che tenne ad Oxford nel 1936, solo una classe dirigente che abbia letto e ruminato nella mente e nel cuore più fiabe durante la crescita, sarebbe in grado di immaginare e compiere scelte più belle, buone e vere e non solo più utili per i voti da esprimere alle prossime elezioni.