I campionati di calcio, il Qatargate, l’agitazione tutta italiana intorno al “Rinascimento” saudita hanno portato alla ribalta l’attivismo dei Paesi della penisola arabica per accreditarsi nel mondo occidentale.
C’è un altro aspetto poco sotto i riflettori, che però può avere una più lunga durata ed un’incisività anche maggiore, e sono le politiche nel campo dell’istruzione. I cui primi indizi si sono delineati negli ultimi Pisa, con la partecipazione e poi il sempre migliore posizionamento di questi Paesi nelle classifiche.
Prendendola un po’ da lontano possiamo partire dall’escalation nelle stesse classifiche dei Paesi dell’Estremo Oriente: qui in Italia – che come è noto segue spasmodicamente le notizie sulla scuola internazionale – siamo ancora alla convinzione che la Finlandia svetti in cima, come ha dimostrato la recente polemica intorno alla lettera della madre finlandese in fuga dalla Sicilia. Ma in realtà da quasi un decennio oramai il posto suo e degli altri Paesi nordici, nel passato apicali, è stato preso da Sud Corea, Singapore e poi anche Giappone.
Le ricerche internazionali cercano di capire questa nuova realtà anche perché negli anni 60 e 70 si puntava di più sull’America Latina – e perfino sull’Africa – per il miglioramento. Si sottolinea molto che quei Paesi hanno puntato sull’estensione universale della alfabetizzazione primaria – vera però, non solo di frequenza come in Africa – soprattutto delle donne. Del resto, quando si parla dei settori su cui puntare per migliorare, sempre lì si va a finire. I maschi sembrano essere arrivati al tetto di cristallo delle loro capacità espansive in fatto di scolarizzazione: sono ancora gli apicali, soprattutto nel campo Stem, ma al tempo stesso comprendono uno zoccolo duro di apparentemente refrattari irriducibili. Le ragazze invece sembrano presentare maggiori possibilità di miglioramento. Nel seminario Invalsi dell’ottobre 2022 una ricerca sosteneva che nel nostro Paese le ragazze con almeno un genitore a bassa scolarità, ma con buoni risultati scolastici, sono l’area studentesca in cui cercare di migliorare le prestazioni Stem.
Una constatazione questa che sembra tagliare fuori a priori i Paesi di religione islamica per le note ragioni; vi è chi sostiene che i motivi del loro persistente sottosviluppo, nonostante le ingenti ricchezze dovute alla presenza di risorse energetiche, stiano proprio lì.
Ma a volte le vicende delle società umane presentano curiosi sviluppi. Le donne delle élites ed anche dei ceti medi dei Paesi ricchi della penisola arabica stanno facendo grossi passi in avanti sulla via della scolarizzazione femminile e si sa che di solito questo è l’inizio della fine per il paternalismo maschilista.
Women, Higher Education and Social Trasformation in Arab Gulf in Aspects of Educations in the Middle East and North Africa (Oxford University Press) ci dice molte cose in proposito.
La complessificazione e sofisticazione di quelle società le porta ad investire i loro enormi introiti non solo in beni di lusso e consumi individuali, o come spesso nell’Africa nera in beni e ricchezze espatriate, ma in assets che rimangano sul territorio nazionale, come una classe dirigente necessaria allo sviluppo economico e sociale. E per la quale c’è bisogno anche delle donne e non solo, come all’inizio, degli uomini nel ruolo di insegnanti. Nel 1977 le donne sono state ammesse all’istruzione superiore, cui si sono iscritte in gran massa come avviene in generale oggi nel mondo, ove le studentesse dappertutto hanno i migliori livelli di impegno e di apprendimento e costituiscono un motore di miglioramento. Il tentativo di conciliazione con il tradizionalismo islamico avviene attraverso l’allontanamento anche territoriale e la segregazione dei luoghi di formazione e possibilmente anche di produzione.
Perché un modello così diverso da quello degli altri Paesi islamici che pure hanno un livello meno spinto di tradizionalismo e per certi versi simile a quello dell’Iran, in cui le studentesse sono velate come le altre donne ma sono la maggioranza dei laureati? L’esiguità della popolazione autoctona, il suo alto livello economico, la presenza di una massa di lavoratori poveri importati dai paesi del Terzo Mondo, l’aspirazione alla creazione di una classe dirigente meno costosa per la sua formazione in Gran Bretagna ed Usa e più legata alla identità del Paese possono dare una risposta.
Le donne delle élites di questi Paesi non sono schiacciate dalla miseria ma non sono neppure una minoranza isolata a fronte delle masse di contadine che non hanno la possibilità, ma neppure l’idea di distaccarsi dai modi di vita religiosi tradizionali. Nelle loro incursioni nel mondo occidentale vengono a contatto con una condizione femminile molto desiderabile, che coniuga benessere e libertà sulla base anche di una dignità culturale.
Nei due paper sopra citati è possibile anche seguire le vicende di due donne di ceti sociali diversi che esemplificano questa evoluzione. Una, Fatima, membro di una tribù dominante nel Paese, l’altra, Ghada, immigrante di seconda generazione, più vecchia, sposata con bambini e sponsorizzata nei suoi studi dalla Hei per cui lavora. Dunque classe dirigente autoctona e ceto medio produttivo, i due livelli sociali coinvolti in questa realtà in movimento.
Questa realtà così diversa e per certi versi esotica ci conferma che concentrare il focus formativo sulle ragazze non è in primo luogo una benevola questione di “diritti”, ma un tema di prioritario interesse per Paesi altrimenti destinati all’arretratezza. Fra i quali negli ultimi tempi compaiono new entries fin qui insospettabili.
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