Il tema donne-istruzione viene per lo più oggi affrontato in termini di diritti. Non a caso le donne vengono spesso messe insieme ad immigrati, handicap, minoranze e le loro performance utilizzate come indicatore dell’inclusività di un sistema educativo. In realtà gli ampliamenti degli accessi alla istruzione sono sempre avvenuti per una doppia motivazione: democratizzazione delle società e dunque diritti, ma anche strumento di sviluppo. Fu così anche per la riforma italiana della media unica, che fu uno dei frutti più significativi della stagione del centrosinistra, ma ricevette anche una spinta decisiva dal mondo imprenditoriale che vi vide un importante strumento di miglioramento del livello di preparazione della mano d’opera.



Per l’istruzione femminile il secondo aspetto, quello “produttivista”, viene oggi molto rimosso dalla visione occidentale, come risultato della pulsione anti-efficientista di ideologie molto diffuse soprattutto nel mondo delle scuole, che vedono un’antitesi fra una visione “disinteressata” del sapere e una visione biecamente strumentale. Ma a livello mondiale le cose non sembrano stare così.



Gli studiosi, soprattutto di matrice anglosassone, si interrogano da tempo sulle ragioni di grande sviluppo del mondo asiatico, non solo della Cina, e fra le cause indagano anche sull’apporto della scolarizzazione femminile. In The Little Asian Tigers: identities, differences and globalisation apparso in Education and Change in the Pacific Rim. Oxford Studies in Comparative Education, gli autori si pongono l’obiettivo di indicare le origini dello sviluppo economico di quelle che chiamano “piccole tigri asiatiche”: Hong Kong, Singapore, Corea, Taiwan con in più il delta del fiume delle perle in Cina e Cebu. All’interno dei cambiamenti registratisi in società che – giova sempre ricordare – avevano alle spalle civiltà importanti decadute solo dall’inizio dell’ultimo secolo, la partecipazione crescente delle donne all’istruzione e alla produzione ha ricoperto una importanza determinante.



Alla base di questa evoluzione non starebbe la democrazia politica, ma una relativamente corretta redistribuzione del benessere sulla base delle opportunità scolastiche in un contesto valoriale di nation building. L’intervento iniziale importante da parte di privati e chiese anche in chiave di beneficenza è stato via via sostituito dallo Stato, che è riuscito a garantire i risultati, anche se con finanziamenti inferiori a quelli dei Paesi Ocse. All’inizio ha ricoperto un ruolo principale l’educazione primaria per garantire l’alfabetizzazione sia per femmine che per maschi. Ma si è anche generata coesione sociale per la equa distribuzione del miglioramento in termini di consumi di base. Quando la produzione ha avuto necessità di una forza lavoro più qualificata, si è passati al secondario e al terziario in ordine sequenziale, sempre in modo paritario per ragazzi e ragazze, con anche grande sviluppo del pre-primario al fine di garantire la possibilità di lavoro per le donne. Le famiglie propendono generalmente per la formazione generalista, anche se il governo cerca di spingere verso il filone tecnico-professionale. Gli autori concludono che l’educazione non ha svolto un prioritario ruolo causale, ma è stata di supporto e facilitazione attraverso un sistema altamente competitivo e meritocratico che ha dato largo spazio alla componente femminile.

In The Impact of Educational Empowerment on Women in the Arab World apparso in Aspects of Education in the Middle East and North Africa delle stesse edizioni, gli autori si occupano della situazione dell’istruzione femminile nei Paesi arabi, giungendo a conclusioni nel nostro Paese poco conosciute e scontate. I grandi guadagni del petrolio sembrano essere qui utilizzati negli ultimi periodi non in modo esclusivamente predatorio, come avviene altrove. La classe dirigente tende a investire in immagine (Olimpiadi, sviluppo urbanistico, calcio, turismo) con un’evidente maggiore identificazione nello sviluppo del Paese ed anche in istruzione. Ne è prova la lenta ma costante scalata nelle classifiche Pisa, facilitata anche da una popolazione più ridotta di quella dei Paesi vicini asiatici e africani.

Ma l’aspetto più peculiare della situazione è il tentativo di allentare i vincoli con il mondo anglosassone per la creazione di una classe dirigente autoctona. Motivi di risparmio, ma soprattutto un tentativo di creare una cultura più “nazionale” delle classi dirigenti. In questo contesto la scelta meno scontata è stata quella di coinvolgere anche le donne delle classi alte che ricevono un’istruzione universitaria. Interessante e per certi versi curioso il tentativo di tenere insieme tradizione e modernità, che si manifesta emblematicamente con il fatto che le sedi universitarie femminili non sono solo segregate, ma anche collocate in ambienti desertici. Ma si sa che l’evoluzione delle cose umane spesso non va nella direzione attesa e programmata.

Per venire al nostro Paese e trarre qualche conclusione che possa essere utile, si può prendere in considerazione una ricerca presentata al Seminario Invalsi tenutosi nell’ottobre scorso a Roma. Il terreno maggiore di arretratezza dei risultati italiani sta notoriamente nella matematica, che già dalla fine delle elementari marca il passo, soprattutto nelle regioni del Sud. I risultati in matematica della componente maschile degli allievi sono sostanzialmente molto stabili e presentano una distribuzione caratterizzata da una costante prevalenza sulle ragazze nei risultati apicali, ma anche dalla persistenza di uno zoccolo duro più ampio di quello femminile di irriducibili alla scolarità e perciò tanto più alla matematica.

Le differenze nelle due aree disciplinari di lingua e matematica secondo gli studi psicologici sono legati alla maggiore propensione delle ragazze a dedicarsi a studi per professioni legate alla relazione (di cura ma non solo), mentre i maschi starebbero di più su quello che viene definito come “oggetto”, donde infermiere, insegnanti da una parte e ingegneri e tecnici informatici dall’altra. Peraltro le ragazze a livello internazionale hanno risultati mediamente migliori di quelli italiani e il loro zoccolo duro di irriducibili alla scolarità è molto più sottile di quello dei maschi. Anche qui sembra si tratti di caratteristiche precedenti e seguenti all’impegno scolastico: senso di responsabilità e costanza che verrebbero però pagate con una minore propensione a impegnarsi sul lavoro per il proprio successo e anche – secondo alcuni – con una minore ”brillantezza” (propensione al rischio, all’innovazione).

I dati di Registro Studenti Miur, Invalsi e il Registro Università messi in relazione cominciano a dare alcuni risultati. La differenza maschi-femmine nelle discipline Stem cresce con l’età e rileva perdite continue lungo il percorso, fino ad arrivare a livello universitario alla constatazione che da 35 ricercatrici si arriva a sole 17 docenti ordinarie: 1 su 5 è la quota mancante nel percorso Stem delle ragazze e questo soprattutto nei licei scientifici. Questa lacuna ha ricadute non irrilevanti per il nostro Paese, perché lo priva di una leva importante di giovani che attraverso una formazione tecnico-scientifica potrebbero contribuire alla reindustrializzazione (perché di questo si tratta) italiana. Nel caso specifico la ricerca citata ha individuato l’intervento sulle ragazze come quello che può innalzare più significativamente i nostri scadenti risultati in matematica (indicatore prezioso della propensione a professioni di carattere tecnico-scientifico) e in particolare nelle ragazze con madri a basso livello di istruzione l’anello più debole della catena su cui intervenire.

Il rapporto automaticamente generativo che nei decenni scorsi, a partire da Ocse, era stato ipotizzato fra istruzione e sviluppo è oggi messo in discussione. Dipende anche da che tipo di istruzione. L’Africa subsahariana ha ricevuto da Banca Mondiale e da donors vari grandi finanziamenti per lo sviluppo dell’istruzione di massa e può contare anche in molti Paesi sul ricavato delle risorse naturali interne. Ma, mentre l’accesso all’istruzione, cioè le iscrizioni formali, è arrivato a percentuali superiori al 90%, non altrettanto si può dire per la effettiva alfabetizzazione, tanto che per proseguire negli aiuti è stata posta la condizione di partecipare alla valutazione standardizzata esterna appositamente tarata: Pisa per lo Sviluppo. E lo sviluppo è avvenuto soprattutto nel campo dell’istruzione generalista dei ceti privilegiati che vi hanno trovato spesso uno strumento di ulteriore parassitismo.

Oggi, perciò, si tende a relativizzare i diversi fattori: sostrato ideologico e valoriale, presenza di risorse, caratteri dello Stato sembrano giocare in modi diversi a seconda dei tempi e del contesto. Spesso l’istruzione è il risultato più che la causa dello sviluppo. Tuttavia è abbastanza condivisa l’idea che negare o anche trascurare l’istruzione femminile vada insieme con forme particolarmente pesanti di sottosviluppo economico, sociale e culturale. Gli esempi, a partire dall’Afghanistan, non mancano.

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