Ma la cosa più importante sarà la risposta delle famiglie. Ci si accanisce sempre ad esaminare ed eventualmente a perfezionare l’offerta (risorse a disposizione, curricolo, tipologia dei docenti etc.) trascurando il fatto che l’elemento decisivo è la domanda, soprattutto quando questa è libera di scegliere. Un elemento a favore sta nell’accorciamento di un anno del percorso. È opportuno ricordare ai fortunati non-cultori della materia che due ministri – Berlinguer e Moratti – tentarono, sia pure in modi diversi, di far coincidere la fine della scuola superiore con la maggiore età, per mettere l’Italia alla pari con molti (non tutti) i Paesi occidentali. Oggi la sempre maggiore libertà dei giovani ed anche il crescente (tardivo) discredito dell’esame di maturità rendono questa necessità sempre più evidente.
Sarebbe riduttivo pensare che la forte opposizione a questa misura, quale è quella che si è manifestata in quelle occasioni da parte del mondo della scuola, sia solo dovuta al desiderio di mantenere i posti di lavoro: gli interessi sono sempre coperti e giustificati dalle idee. Opera la convinzione che un anno di scuola in meno porterebbe all’abbassamento del livello culturale, oppure ad una compressione dei contenuti insostenibile, ciò che potrebbe essere in effetti successo nei quadrienni sperimentali autorizzati ed operativi. Potrebbe anche agire una tendenza a tenere i giovani sotto tutela, naturalmente in chiave paternalistica, in coerenza con il mood di molta parte delle famiglie italiane. In questo caso – quello della riforma – non si affronta il problema apertamente per tutti gli ordini di scuola (soprattutto non per i licei), ma si introduce una “tentazione”, per ora solo per gli istituti tecnici, che potrebbe ingenerare voglie di semplificazione ed alleggerimento. Che di per sé non sembra essere un male, anche perché l’Italia è un Paese con consistente (in termini di tempo) offerta formativa, ma con risultati non coerenti.
E poi bisogna ammettere che tutto questo tempo non sembra sedimentarsi nei consumi culturali degli italiani adulti (e questo anche prima di Internet). Un po’ come è successo con la “settimana corta”, che è stata sfortunatamente la principale modalità di applicazione dell’autonomia scolastica. La possibilità di iscriversi anche all’università è cruciale, ovviamente, soprattutto per l’adesione degli istituti tecnici, che giustamente vedevano l’eventuale cancellazione di questa possibilità come un ostacolo insormontabile. Invocare una riforma complessiva del sistema, almeno nel nostro Paese, ha fatto il suo tempo. Dopo la ristrutturazione ad opera di Moratti, che è stata importante soprattutto per questo segmento della formazione, i tentativi successivi sono stati accolti dalla scuola con fastidio e dalla società con indifferenza. L’unico modo per introdurre cambiamenti utili che siano veramente efficaci sembra essere quello di interventi su singoli pezzi cruciali del sistema di formazione, facendo attenzione a creare le convenienze per un loro allargamento in capo ai diversi attori.
Ma soprattutto bisogna smantellare il disprezzo per il lavoro. In Italia la cultura dell’artigianato che ha fatto grande l’Italia del Rinascimento sembra essersi persa – soprattutto in alcune sue parti – nei secoli della decadenza, egemonizzati da una visione del mondo spagnoleggiante: quella che ha permesso che l’oro delle Americhe transitasse per la Spagna durante i secoli, depositandosi solo nelle manifestazioni del lusso di ristrettissime élites ed approdando soprattutto nell’Europa del Nord ed in particolare nei Paesi Bassi, dove, attraverso il lavoro, ha costituito la base economica e culturale della loro attuale prosperità. Alle sue radici il valore protestante dell’impegno nel Beruf, come manifestazione della salvezza.
La svalutazione del lavoro potrebbe poi avere un importante ruolo nella persistenza – non solo nel nostro Paese – di uno zoccolo duro di non scolarizzati, sia in modo esplicito (bocciati) che – definizione Invalsi – implicito (ovvero certificati al di sotto dei livelli attesi di alfabetizzazione). Questa persistenza non può più essere spiegata solo con la deprivazione economica sociale e culturale: andrebbe esplorato il senso di identità e di auto-identificazione di questi gruppi sociali, che permette loro di auto-caratterizzarsi in senso positivo ed anche spesso oppositivo nei confronti di gruppi, per lo più piccolo-medio borghesi, che danno per scontata la propria superiorità ed a cui peraltro appartengono coloro che analizzano il problema attraverso la ricerca. Che fin qui ha utilizzato come indicatore di progresso le iscrizioni di studenti a basso status economico-sociale di provenienza a corsi generalisti e soprattutto non orientati al lavoro.
La svalorizzazione della formazione per il lavoro – che invece potrebbe essere coerente con il modello antropologico di riferimento di questi gruppi – forse è un elemento decisivo in negativo, che fa sì che le iniziative di “conversione” ormai da tempo realizzate da parte del sistema scolastico non vadano a buon fine. Quanta parte della dispersione nel biennio degli istituti professionali è dovuta alla prevalente presenza di materie a carattere generalista? Frutto di riforme benissimo intenzionate e finalizzate in senso progressista, peraltro.
Insomma, operare una rivalutazione della cultura del lavoro è un elemento cruciale, sia per ridare al Paese una strada per il ritorno allo sviluppo attraverso la formazione di giovani qualificati per lavori tutt’altro da disprezzare dal punto di vista del loro contenuto cognitivo, che per realizzare una reale culturalizzazione di chi attualmente riempie le fila dei NEET.
(2 – fine)
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