Lasciamo ovviamente passare questi ultimi mesi (speriamo) di bufera Covid, ma prima o poi bisognerà tornare alla normalità e tra le priorità c’è sicuramente il tema dell’istruzione tecnica.
Lo studio Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) ha riconfermato questioni già note: ascensore sociale fermo, solo il 12% dei figli si laurea se i genitori sono poco istruiti, un terzo di chi frequenta i licei proviene da famiglie di laureati, uno su cinque da famiglie con al massimo la licenza media, uno su due negli istituti professionali da un background culturale familiare basso.
Sono tanti i commenti potenzialmente suscitati da questi dati, da incrociare con quelli provenienti dalle recenti iscrizioni, in cui il 57,8% sembra scegliere ancora per i propri figli il liceo.
Il presidente Draghi nel suo discorso inaugurale ha espressamente auspicato un cambio di passo, sollecitando un interesse di tutte le componenti per l’istruzione tecnica. Mi permetto, da dirigente scolastico di un istituto tecnico della Brianza, di unirmi al coro. In Brianza, tra l’altro, forse per la fortissima vocazione tecnica del territorio, non spenta nonostante la gravissima crisi, gli istituti tecnici industriali sono ancora molto ambiti e anche quest’anno il numero di potenziali iscritti ha decisamente superato le possibilità di accoglimento delle domande di iscrizione.
Da umanista ho potuto in questi anni di dirigenza sperimentare la ricchezza dell’istruzione tecnica, ma anche le molte ombre che l’avvolgono. Vediamone alcune.
Il prologo è di natura culturale ed educativa. I nostri ragazzi hanno sempre meno occasione di paragonarsi concretamente al fascino, alla ricchezza della tecnologia: mancano nella vita quotidiana, nell’esperienza dei nostri adolescenti occasioni di incontrare tecnici appassionati, uomini (o donne) che abbiano fatto della curiosità per la realtà materiale il senso della propria ricerca professionale.
Un grande docente dell’istituto che dirigo già qualche anno fa lamentava che fosse sempre più raro incontrare ragazzi che si occupano della manutenzione delle loro bici e moto (e infatti abbiamo aperto una piccola officina), ma non è facile trovare adulti professionisti che si mettano in gioco con giovani. La digitalizzazione ha sicuramente compromesso la possibilità di “vedere” il funzionamento dell’oggetto; ha inoltre generato nei cosiddetti nativi digitali l’errata convinzione sull’informatica disciplina facile perché “io il mio cellulare lo conosco a meraviglia”. Che fare?
Qualche ironico tentativo di miglioramento. Innanzitutto occorre un impegno che investa la scuola secondaria di primo grado: ripensando la didattica di tecnologia, incrementando i laboratori manuali, promuovendo incontri più sistematici con “maestri del lavoro” e un raccordo più frequente con gli istituti tecnici e professionali.
Sempre nella scuola secondaria di primo grado occorre fare orientamento in modo più sistematico: la prevalenza di docenti donne (duole dare una sfumatura di sessismo all’argomentazione) e un ben più pericoloso arroccamento sul modello gentiliano hanno generato equivoci e stereotipi che non ci possiamo più permettere. I bravi al classico, i bravini allo scientifico, i “meno bravini” al liceo delle scienze applicate (perché il latino sarebbe sempre più difficile dell’informatica!), i sufficienti al tecnico, i quasi sufficienti (i promossi per “misericordia”) al professionale.
Qualche scostamento di norma avviene per intercessione della “stirpe”: se il meno bravino è figlio di medici, ingegneri o comunque di genitori laureati, andrà comunque al liceo, tanto semmai o ripete o le lezioni private metteranno un cerotto.
Il buon padre Dante nell’VIII canto del Paradiso aveva già espresso obiezioni molto agguerrite e sensate a chi torce l’ingegno dei figli a ragioni opportunistiche; noi, a scuola, lo facciamo sistematicamente.
I docenti di scuola secondaria di primo grado di norma sono uomini e donne di scuola che raramente conoscono contesti extra-scolastici, la maggior parte ha compiuto studi liceali, quindi orienta a un mondo che non conosce.
Gli open day che faticosamente ogni scuola mette in atto servono davvero a poco, il pregiudizio è più forte. Risultato: arrivano agli istituti tecnici per lo più ragazzi “licenziati” dalla scuola secondaria di primo grado con una valutazione di 6/10, i 7 sono rari (le prove Invalsi, preme ricordarlo, ci dicono che il 6/10 equivale a una competenza logico-matematica ed espressiva di V elementare). Molti di questi stessi ragazzi sono, per le ragioni descritte all’inizio, figli di famiglie poco acculturate, molti di origine non italiana, molti portatori di disturbi specifici di apprendimento, dislessie, discalculie, disturbi dell’attenzione. Si formano cioè classi in cui fino al 60-70% degli studenti avrebbero bisogno per determinare il famoso “valore aggiunto” di piani di studio personalizzati, di clima collaborativo, di stabilità dei docenti, soprattutto di quelli di sostegno. E invece?
La riforma del biennio degli istituti tecnici industriali (meccanici, elettronici, elettrotecnici, informatici, quelle meravigliose discipline di cui il paese ha un gran bisogno per rivitalizzarsi) ha portato in alcuni casi il gruppo dei docenti a 16-17 per classe, con pochissime ore ciascuno, spesso con un turnover che costringe a continui adattamenti fino a dicembre inoltrato. Difficilissimo è infatti trovare docenti di area tecnica: quale ingegnere dovrebbe accettare di guadagnare per quasi tutta la vita lo stesso stipendio? Fatte salvo le situazioni di eccellenza (che pure esistono e di cui siamo giustamente orgogliosi), chi sceglie la scuola è perché fatica a trovare collocazione, e questo vale anche per i docenti tecnico-pratici, non sempre competenti né nell’area tecnica né nelle competenze generali.
Non è un caso che ottimi risultati li ottenga l’area dell’istruzione tecnica del sistema paritario (basti, fra tutti, l’esempio delle scuole salesiane), in cui vige un sistema di selezione accurato e in cui la dimensione didattica si accompagna spesso a una forte vocazione pedagogica (si pensi alla figura del consigliere/tutor), essenziale in contesti difficili.
Nelle scuole più complesse (per contesto, per disagio, per profilo dello studente medio) dovrebbero andare i migliori dirigenti scolastici e i migliori docenti, da noi c’è spesso invece una fuga ininterrotta verso i licei migliori delle città, nei quali gli studenti “spugna” gratificano meglio le ambizioni dei docenti con maggior esperienza.
Inevitabile, per la situazione delineata, un grosso tasso di selezione che per dei futuri tecnici è particolarmente drammatico, perché significa ritardo nella prima assunzione e, in un contesto di globalizzazione, gap incolmabile con altri lavoratori provenienti da altri paesi con corsi di studio più brevi.
Proprio nell’area tecnica i docenti non solo dovrebbero essere eccellenti e aggiornati “tecnologi”, ma molto ben formati nelle competenze didattiche, valutative e relazionali, le famose soft skills di cui c’è un gran bisogno anche nei contesti produttivi.
Il biennio del tecnico prevede tutto lo scibile. Italiano, storia, matematica, informatica, chimica, fisica, disegno e dulcis in fundo, diritto: una delle discipline più interessanti, ma di una complessità davvero eccessiva per i nostri ragazzini. Originariamente era prevista al triennio, chi mai ha pensato di anticiparla? Ai tecnici, per le grandi responsabilità che li attendono in ambito professionale, occorrerebbe una buona competenza giuridica, ma da acquisire con continuità negli ultimi anni.
Chi tra i lettori de Il Sussidiario ha frequentato il liceo classico d’antan ricorda forse con nostalgia le 18 (!) ore trascorse con l’unico docente di materie letterarie. Certo, poteva anche andare male, ma dal punto di vista formativo e metodologico era sicuramente una strada più pianeggiante paragonarsi a un interlocutore prevalente piuttosto che a 10-12 metodi, criteri di valutazione, regole di comportamento differenti.
L’Istituto tecnico industriale è una scuola difficilissima e lo diventa giorno dopo giorno quando il disagio sociale, la crisi educativa, i conflitti con le famiglie, la solitudine dei nostri ragazzi acuiscono le tensioni.
Il secondo anno presenterebbe, nella ratio del legislatore, una disciplina molto interessante, l’acronimo è Sta (scienza e tecnologia applicata) e dovrebbe trattarsi di una disciplina altamente orientativa, che consenta alla fine del biennio un orientamento consapevole e strutturato, ma anche questa andrebbe ripensata, senza cadere nei tecnicismi, perché come è adesso non funziona; occorrerebbe probabilmente attendere per l’orientamento la conclusione del secondo anno, prevedere un’alternanza dei docenti di indirizzo, una maggiore frequentazione dei laboratori.
Occorrerebbe anche valorizzare, attraverso accordi nel territorio, la possibilità di incrementare la presenza di tecnici diplomati che accompagnino gli studenti più giovani a cogliere gli aspetti più pratico-operativi della disciplina; si è forse dato troppo spazio all’ingegneria delle discipline, con docenti ad alte competenze teoriche ma poco “maestri del fare”, talora troppo ambiziosi e teorici per i nostri ragazzini.
Conosciamo bene la dialettica tra istituti tecnici e professionali, ma i nostri nuovi ragazzi, dipendenti dal mondo virtuale, hanno “fame di realtà” e questa fame può essere in qualche modo placata dall’incontro con veri tecnici operativi e appassionati del fare.
Il triennio avrebbe bisogno di una disamina altrettanto ampia. Sintetizzando, occorre sicuramente dare vigore all’esperienza dei Pcto, vero bagno di esperienza e di incontro con figure autorevoli, occasione unica di fare orientamento del senso più autentico; i percorsi di lavoro accompagnato vanno incrementati, studiati e sviluppati, anche nella prospettiva di potenziare l’esperienza dell’apprendistato.
Resta drammatica la questione dei laboratori, dei quali, per le ragioni sopra esposte, c’è un gran bisogno negli istituti tecnici; e contemporaneamente il problema della loro efficienza, del loro aggiornamento, delle questioni relative alla sicurezza va affrontato in maniera sistematica. I piani operativi nazionali hanno consentito in molti casi un loro adeguamento, ma certo la rincorsa all’innovazione non può che precisarsi con un’alleanza continuativa con le aziende del territorio. La scuola da sola non può vincere questa sfida. Insieme agli altri soggetti, in una prospettiva di bene comune, sarà ben lieta di contribuire alla formulazione dei nuovi profili.
E dopo il diploma? Come il presidente Draghi ha indicato, risultano straordinariamente interessanti gli Its (Istituti tecnici superiori), che già da tempo hanno messo attorno allo stesso tavolo scuola, università e azienda. Questa è la strada.
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