La questione dell’istruzione tecnico-professionale comincia a porsi addirittura a fine anni Novanta, complicata dalla ripartizione di competenze fra Stato e Regioni. Da allora tutti i ministri dell’Istruzione (sono stati ben 14) hanno provato a metterci mano e a lasciare il segno. Nessuno è riuscito a raccogliere quanto seminato. Basta pensare che il sistema di istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts) nasce nel lontano 1999 col ministro Berlinguer, mentre il sistema di istruzione e formazione professionale di competenza regionale (IeFP) è nato con la legge 53/2003 della Moratti. Da allora è stato tutto un susseguirsi di riforme e controriforme per “raccordare” i sistemi, sviluppare competenze, coordinarsi col mondo produttivo, potenziare il “saper fare” e l’apprendimento “on the job”, la didattica “laboratoriale”, la modularità e la flessibilità dei percorsi.
Lo stesso comunicato stampa del ministero del 18 settembre scorso, che annuncia il nuovo progetto di filiera, potrebbe essere ascritto a uno qualsiasi dei tanti ministri precedenti, il linguaggio è lo stesso: “Oggi l’istruzione tecnica e professionale diventa finalmente un canale di serie A, in grado di garantire agli studenti una formazione che valorizzi i talenti e le potenzialità di ognuno e sia spendibile nel mondo del lavoro, garantendo competitività al nostro sistema produttivo”. Anche i dati, sempre puntualmente richiamati, di Unioncamere e Confindustria sul mismatch tra le competenze in uscita degli studenti e quelle richieste dal mercato del lavoro sono quasi un ritornello che torna annualmente nei convegni e sulla stampa.
Quanto all’idea del “campus”, è molto affine a quella dei poli tecnico-professionali, su cui si è molto lavorato in passato, allo scopo di realizzare aggregazioni multisettoriali e multifunzionali, ottimizzare spazi e risorse, favorire una formazione agile e flessibile. Idem per la “struttura tecnica”, una specie di cabina di regia che dovrà promuovere la riforma prevista dall’attuale disegno di legge e che beneficerà di uno specifico finanziamento. All’attuazione delle altre ambiziose disposizioni invece “si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente” (e anche questo l’abbiamo già letto in calce a tante riforme epocali). Perché allora sembra che nulla sia mai stato fatto e ogni volta si parla di “novità”, quando, al contrario, tutti i governi passati si sono spesi nella stessa direzione del “raccordo scuola-impresa”?
È accaduto che, a causa di uno sviluppo tecnologico in rapida evoluzione, si assiste a un continuo rincorrere traguardi e skills, come ci chiede il mercato o come ci chiede l’Europa, senza mai riuscire a colmare il cronico disallineamento. Il problema si può risolvere in due modi: o creando una filiera formativa davvero flessibile, coordinata e capace anche di auto-aggiornarsi (la “scommessa” di Valditara), o lasciando alla scuola un compito formativo di base e generico e poi alle aziende il compito di formare competenze ulteriori e specifiche. La prima è la strada scelta dal Governo, che si propone di rispondere “alle esigenze educative, culturali e professionali delle giovani generazioni, e alle esigenze del settore produttivo nazionale secondo gli obiettivi del Piano nazionale Industria 4.0”.
L’alternativa è l’idea che la scuola deve dare gli strumenti cognitivi e non inseguire le esigenze dell’industria, cara da sempre a un mondo che mantiene la sua rappresentatività e che non mancherà di far sentire la sua opposizione. “No al lavoro al posto dell’istruzione” è uno slogan che ha sempre fatto presa.
Qual è allora la vera novità del progetto Valditara? Certamente la riformulazione del percorso in 4 anni a livello secondario più 2 a livello terziario e la sperimentazione, che partirà dal 2024-25 e potrà coinvolgere il 30% degli istituti tecnici e professionali.
La riduzione dei percorsi del secondo ciclo da 5 a 4 anni e la possibilità di accesso diretto ai 2 anni successivi negli Iys Academy e negli Ifts, anche da parte degli studenti in uscita dai percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP), può certamente aumentare l’attrattività e quindi la scelta di quell’utenza orientata all’inserimento rapido nel lavoro con un bagaglio di competenze immediatamente spendibili. Teoricamente, anche l’organizzazione strutturale della filiera in campus può andare incontro a questo tipo di domanda. In pratica, però, sarà tutto da costruire. Bisognerà stipulare accordi, istituire reti, integrare l’offerta formativa, facilitare i passaggi fra percorsi diversi, innovare la didattica, anche ricorrendo a contratti di prestazione d’opera per attività d’insegnamento con soggetti del mondo del lavoro e utilizzando in rete tutte le risorse professionali, logistiche e strumentali disponibili, come prevede il Ddl. Le contestazioni non mancheranno.
Inoltre, la riduzione di un anno dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado non comporta una riduzione dei saperi e delle competenze indicati nel Profilo educativo, culturale e professionale dell’indirizzo di riferimento. Come si farà allora a concentrare in 4 anni il conseguimento di obiettivi che non si ottengono in 5? E il calo degli apprendimenti anche di base, evidenziati annualmente dall’Invalsi, come si recupera? Insomma la riforma, al momento, sembra davvero una “scommessa”.
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