Di scuola in Italia si parla sempre molto, ma ci si investe poco: l’ideologismo prevarica il pragmatico buon senso di chi ci lavora ogni giorno. Un approccio di questo genere emerge in un recente editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 12 settembre 2024, primo giorno in cui ha suonato la campanella in Lombardia. L’autorevole studioso, che aveva fatto pubblica ammenda su un assai discutibile articolo a proposito del mito dell’inclusività nella scuola italiana, ritorna sulla necessità di ripensare e rilanciare l’intero sistema educativo del nostro Paese, dalla scuola dell’infanzia all’università. Nihil novi sub sole. Per Galli della Loggia, tuttavia, sarebbe ora di evitare di continuare a fare geremiadi sulla mancanza di finanziamenti inadeguati al mondo dell’istruzione, sulla fatiscenza degli edifici scolastici, sugli stipendi dei docenti, sull’obsolescenza di certe parti dei programmi e così via. Parafrasando un celebre aforisma di Cattaneo, occorre occuparsi dei “nuovi italiani” e “farli” tali, integrando i giovani stranieri arrivati nel nostro Paese nel corso delle “ondate migratorie” degli ultimi anni, per garantire un futuro solido all’Italia. E come?



Galli della Loggia si fa paladino di una recente proposta che ha animato il dibattito durante l’estate italiana, cioè quella di introdurre un nuovo modello per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei giovani stranieri. Accanto allo ius soli e allo ius sanguinis, ci sarebbe il modello denominato ius scholae, in pratica un’invenzione italiana attualmente non presente nel mondo occidentale, insomma un’assoluta novità nostrana (qualche tempo fa si parlava di un non meglio precisato ius culturae).



In cosa consiste tale “diritto di scuola” sostenuto dall’attuale opposizione con l’appoggio di una parte dell’attuale maggioranza (Forza Italia), in disaccordo con il Governo? Pur in assenza di una formulazione condivisa e ufficiale, il riconoscimento della cittadinanza italiana sarebbe destinato ai giovani con background migratorio nati in Italia o venuti prima del compimento dei 12 anni che risiedano legalmente e che abbiano frequentato regolarmente almeno cinque anni di studio nel nostro Paese, in uno o più cicli scolastici. Inoltre, se i 5 anni presi in considerazione includono la frequenza della scuola primaria, allora occorre avere come requisito anche il superamento del ciclo di studi successivo con esito positivo, ovvero le medie.



Ma è proprio necessaria questa riforma dell’acquisizione della cittadinanza italiana ponendo come discrimen et ratio la scuola? In sostanza si vorrebbe rimpiazzare una legge vigente degli anni Novanta, che tuttavia pare funzionare benissimo: secondo i dati ufficiali di fonte ministeriale, nel 2022 gli stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza italiana sono stati in totale 133.236 (per il 50,9% femmine e per il 49,1% maschi), cioè il 9,7% in più rispetto al 2021. Nel 2022 è divenuto italiano il 4,3% dei residenti con cittadinanza non italiana (CNI) a fronte di una media del 2,6% per l’intera UE27. Per farla breve, nella classifica europea, l’Italia dal 2014 al 2021 è sempre oscillata fra il quinto e il decimo posto per la concessione di passaporti. Tra coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana nel 2022, il 26% è costituito da ragazzi di età tra 0 e 14 anni, dato con il quale, se si aggiunge anche la fascia di età 15-19 anni, si arriva al 37% di tutte le acquisizioni. Ragazze e ragazzi tra 0 e 14 anni sono originari soprattutto di Pakistan (44%), Bangladesh (42%), Egitto (41%) e Marocco (39%).

Chi insegna nella scuola, in particolare nelle grandi città del Nord, vede tutti i giorni come sono composte le nostre classi. Un intellettuale di punta come Galli della Loggia, coautore con Loredana Perla di un recente saggio sull’insegnamento dell’identità italiana (valso alla pedagogista un posto nella commissione per la revisione delle Indicazioni nazionali), sottolinea giustamente che il nostro sistema educativo è uno degli ambiti fondamentali su cui agire per evitare il declino. Per questo, secondo l’editorialista, in attesa che si arrivi a soluzioni per una generazione di giovani con una qualificazione professionale carente e capaci di scrivere in italiano corretto e comprendere un testo, lo ius scholae può essere la chiave di volta che contribuisce a costruire una nuova identità nazionale inclusiva e dinamica.

Ma così la scuola italiana diviene ancora una volta terreno di scontro per altre operazioni, squisitamente politiche; che sarebbero certamente legittime se dichiarate apertamente per ciò che sono, e se a monte, per una sorte di compensazione, fossero state risolte le decennali criticità logistico-organizzative sul funzionamento della scuola italiana: per esempio, il precariato che continua a dilagare, i concorsi per dirigenti scolastici con ricorsi su ricorsi, le sanatorie ope legis endemiche, lo strapotere dei TAR, quello sindacale, il fuggi-fuggi dei docenti da Milano per l’elevato cosato della vita, e via elencando.

Secondo Galli della Loggia, il Governo attuale sembra non comprendere la portata storica offerta dallo ius scholae per creare “nuovi italiani”. Ma, ad oggi, la sfida vera del Governo è dovrebbe essere piuttosto quella di far “funzionare” la macchina della scuola, ponendo mano, con auspicabile lungimiranza e coraggio, alle criticità denunciate ogni anno, da più parti, con retorica gattopardesca. Su queste pagine si è già fatto notare che lo ius scholae rientra alla perfezione nel “menu” politico dell’avvicinamento tra FI e Pd sotto gli auspici dell’Ue (e degli eredi Berlusconi) e a tutto danno dell’attuale maggioranza di governo. Entro certi limiti, a riguardo della scuola italiana resta vero ciò che disse Giulio Andreotti in un’intervista a Oriana Fallaci nel 1974: “Non esistono soluzioni di centro-sinistra o di centro-destra o di centro. Esistono soluzioni valide e basta”. Cerchiamole. Sicuramente parlare di ius scholae è calciare la palla in tribuna.

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