Rinunciare vuol dire
accorgersi della grandezza
di ciò cui si rinuncia
ed osservarla.
Rinunciare è l’inchino
all’esserci
dopo la rinuncia.
Un semplice inchino.
(Kikuo Takano)
Così ci siamo di nuovo. Dentro la Dad e dentro il tormento. Ci verrebbe da dire tutte le cose che si sarebbero potute fare, a me e al mio amico Giuseppe. Noi ci possiamo ancora guardare negli occhi, nonostante la zona rossa: se insegni in una scuola media hai almeno la possibilità di vedere i più piccoli, poi devi saltare su un pc e collegarti con i più grandi. Cacciare imprecazioni perché il collegamento traballa, perché la linea non regge: ma come, non avevamo pensato a tutto durante il lockdown?
No: un sacco di cose non sono state pensate, né fatte. Ma abbiamo deciso che non serve mettersi qui a fare la lista degli errori e dei guai. Non ci pare il momento delle manifestazioni in piazza, delle rivendicazioni sindacali, dello sberleffo a chi pensava alle rotelle.
Mi dice invece che ieri ha fatto lezione con sullo sfondo una galassia. Che i suoi di terza gli hanno insegnato che si può sostituire la parete triste della scuola che ha alle spalle con uno sfondo a scelta tra quelli offerti dalla piattaforma. Così hanno scelto tutti la galassia: tutte le facce sospese dentro la polvere dell’universo, dentro le stelle del firmamento. E lui con la sua tazza in mano, con la sua tazza con su l’inizio del Canto notturno di Leopardi che si è portato come faceva in casa durante il primo lockdown.
Giuseppe dice che ormai lo sanno tutti che questa qui non è la scuola. Non c’è nemmeno un ministro, un formatore, un educatore, un pedagogo di quelli che parlano in inglese e sventagliano da anni le meraviglie del sol dell’avvenire digitale che ora, davanti al digitale che diventa reale può dire che questa è la scuola.
Mica soltanto perché manca la socialità. La scuola non è apprendimento e socialità, dice Giuseppe. È sbagliata la congiunzione, ci vuole altro. La scuola è apprendimento dentro la socialità. Ma lui traduce così: è apprendere dentro una compagnia, è imparare dentro un’affezione. E adesso a distanza che cosa ci tiene insieme, dice, se non quell’affezione che abbiamo costruito, quel rapporto che abbiamo tirato su nei giorni tra noi alunni e docenti?
Come dice il poeta, la rinuncia è il momento in cui ancora più acutamente si avverte la grandezza di ciò a cui si rinuncia. Lo ha detto una bambina rispondendo a un presidente di regione che non ci crede che i bambini vogliano andare a scuola, che continua a fare il cabaret accusando le madri di dare latte al plutonio a questi figli che non sanno apprezzare l’idea di starsene a casa a guardare la televisione. Lei vuole la scuola. Lei sa che senza la scuola e un maestro non si diventa grandi.
Mentre me lo racconta, Giuseppe dice di sapere bene che noi viviamo questo tormento di non-scuola dentro il tormento ancora più grande della malattia, dei morti. Sa che si deve stare a casa, lo accetta. Purché si ascolti questa bambina, purché non si raccontino altre frottole.
Cambierà lo sfondo per le sue lezioni domani, ci metterà un manifesto con la poesia di Takano. Perché, dice, dovremmo solo fare un semplice inchino, riconoscendo la grandezza del dono che abbiamo avuto e che vorremmo riavere presto. Nel frattempo cercheremo di tenere acceso il fuoco soffiando da qui. Mi metto a soffiare con lui, anche se mi viene voglia ancora di eccepire, di precisare, di obiettare. No, dice lui. È l’inchino che cambia le cose. I poeti, e Giuseppe, tante volte ci dicono la strada. Capiremo?