L’irrompere delle non cognitive skills nello scenario scolastico italiano sconta qualche diffidenza e qualche reazione critica. Altri sarebbero i problemi della scuola italiana. Per esempio, visto in termini di priorità, bisognerebbe non perdere l’opportunità di un forte e deciso investimento sulle infrastrutture necessarie per assicurare forme generalizzate di insegnamento/apprendimento on line. Il futuro – nonostante l’attuale unanime desiderio di scuola in presenza – andrebbe in quella direzione e il ritardo del nostro paese in materia digitale sarebbe da colmare quanto prima. Altri osservatori preferiscono pragmaticamente guardare al domani immediato: assicurare un regolare avvio dell’anno scolastico, garantire la sicurezza nelle aule, scongiurare un altro anno (come i due precedenti) sconvolti dalla pandemia. Ai cambiamenti si penserà dopo. Questo sembra, al momento, anche l’orientamento delle maggiori autorità scolastiche. 



Lasciando, poi, da parte quanti concepiscono l’apertura di questo territorio educativo come una moda passeggera e quanti ritengono che la questione dell’apprendimento socio-emotivo sia un tema antico non meritevole di una particolare attenzione in quanto costituisce da sempre il nucleo della formazione umana, va richiamata – sono apparsi alcuni interventi in tal senso – l’analisi critica di quanti hanno interpretato il richiamo all’importanza delle non cognitive skills come l’ulteriore cedimento alle aspettative scolastiche del mondo produttivo. Il guru in materia non è un illustre economista che per oltre un trentennio ha studiato come migliorare le prestazioni degli individui, agendo fin dai dai primi anni scolastici e indagando le diverse caratteristiche della personalità umana in modo da esaltarne le qualità migliori?  



L’impressione è che si manifesti per varie ragioni una scarsa comprensione – in qualche caso forse addirittura una incomprensione – di un passaggio culturale non soltanto stimolante sul piano della discussione accademica, ma con forti potenzialità innovative nella vita scolastica e formativa quotidiana. E cioè la consapevolezza – peraltro già ben presente nella realtà quotidiana di famiglie e insegnanti, ma sfumata o negata sul piano pubblico in omaggio alla preoccupazione/timore di non urtare i temi cosiddetti sensibili – della rilevanza di quelle componenti della persona che, pur meno evidenti sul piano dell’acquisizione del sapere, sono tuttavia in grado di condizionarne gli esiti e di rendere più armonica e completa la crescita della persona. Insomma per dirla con una formula forse un po’ semplicistica, ma reale, cognitivo e non cognitivo sono così strettamente intrecciati da non poter fare a meno l’uno dell’altro. 



Non è un caso che la tematica delle non cognitive skills giunga proprio quando siamo nel pieno di un tornante che sposta il discorso scolastico dalla competenza a oltre la competenza o, per meglio dire, invita a considerare la competenza alla luce anche della dimensione socio-emotiva, attenuandone gli aspetti più funzionalistici. Questo fatto suggerisce di riconsiderare le prove standardizzate con nuovi criteri (già in Oecd si parla di global competence, meglio tardi che mai), ma soprattutto riporta nel discorso pubblico – magari a fatica per antiche e mai superate resistenze ideologiche – il tema dell’educazione morale o, se si preferisce, il confronto con i grandi valori alla base del destino umano (da noi il massimo raggiunto in materia è un’ora di educazione alla cittadinanza come se la formazione del futuro cittadino non necessitasse di una riflessione etica, ma fosse sufficiente un’infarinatura di come si dovrebbe comportare il buon cittadino). 

Il caso degli Stati Uniti può essere un’utile occasione di confronto. Nella cultura pedagogica americana il tema delle non cognitive skills è accostato in duplice modo: quello di marca più psicologica (con la teoria dei Big Five) al quale è appoggiata la riflessione di Heckman, e quella di segno più etico-morale come nelle proposte ed esperienze del movimento noto come Character education. Secondo gli animatori di questo movimento (le cui radici si trovano nella psicologia etico-evolutiva di Lawrence Kohlberg e dei suoi allievi) più che le pratiche didattiche standardizzate, proceduralizzzate e una valutazione impersonale contano il clima che si respira nella scuola (in particolare la capacità di dar vita a una comunità reale), la qualità della relazione con gli insegnanti (e gli adulti in genere), la motivazione allo studio, la capacità di personalizzare lo sforzo cognitivo e di renderlo facilmente sopportabile.

Questo passaggio è tanto più importante nel tempo del Covid, che ha profondamente rimescolato le carte: la violenza con cui la pandemia si è abbattuta sulle nostre società ha sollevato nei fatti la questione delle “cose essenziali” che sono non solo alla base della ricchezza di un paese, ma costituiscono i fondamenti della stessa convivenza sociale. La contrapposizione tra economia e salute, così come le norme, ad esempio, che differenziano i non-garantiti dai garantiti, hanno reso esplicite l’esistenza di visioni diverse del modello di società desiderabile presenti – con pesi diversi – nel corpo sociale. Sembra saltata quella sicurezza nel dominio – della propria vita, del mondo, della natura – che pareva acquisita, con una buona dose di presunzione, fino alla vigilia della pandemia. L’uomo si è scoperto ben più fragile di quello che pensasse di essere. 

L’irregolarità scolastica ha rinforzato la povertà scolastica. Non bastano i finanziamenti (per quanto necessari) per sconfiggere la mala pianta della dispersione, del sotto rendimento, della disaffezione scolastica. Qualche investimento in più sulle persone e sulle loro capacità potrebbe non guastare. 

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