Un tempo chi lavorava cantava. Sulle impalcature e nei campi. Cantava perché aveva un lavoro, un compito da svolgere e compagni con cui lavorare. Cantava perché si sentiva qualcuno e portava a casa da vivere ai suoi. Con orgoglio. Il lavoro arricchisce chi lavora, qualsiasi lavoro. Oggi invece chi fa lavori umili molto spesso te lo fa pesare e ha il muso scuro, come chi sopporti un peso. Così, per esempio, ti puoi sentire in imbarazzo ad avvicinarti al portinaio, arrabbiato perché deve scaricare i sacchi dell’immondizia, e ti domandi: che cosa è successo del lavoro?
Anni di giuste rivendicazioni e diritti hanno fatto sì che il lavoro, in molti casi, nella mentalità corrente, sia diventato un obbligo e un fardello insopportabile. O forse un optional. Scrive il poeta libanese Khalil Gibran nel suo intramontabile “Il profeta”, libro cult della cultura pop degli anni 60: “Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura. Ma io vi dico che quando voi lavorate, voi portate a compimento una parte del sogno remoto della terra, assegnato a voi quando quel sogno fu generato, e nel mantenere voi stessi con fatica voi in verità state amando la vita, e amare la vita attraverso la fatica significa essere in intimità con il segreto più intimo della vita”.
È così. Il lavoro, la passione per il lavoro ci portano dritti al cuore della vita. Certo, ci vuole passione, perché il pane che non è impastato con amore non profuma di pane. Questa passione ha fatto bello il nostro Paese, il Bel Paese dall’arte al cibo, dall’artigianato ai campi coltivati come una ordinata tavolozza di colori.
Questa passione ha reso possibile nel dopoguerra la rinascita e il boom economico. Negli anni 60 gli operai cantavano sulle impalcature o per strada, andando al lavoro. Un altro mondo, più sereno. Non da rimpiangere, ma a cui guardare per ripartire, ricominciando da quella passione per il lavoro, qualsiasi tipo di lavoro sia, che i nostri padri avevano nel sangue, nel loro stesso Dna. Ripartire per imparare – o re-imparare – che cosa sia il lavoro.
Tutti vogliono studiare, ma lo studio, per chi abbia da sempre fatto il manovale, non è un diritto scontato. Ha il sapore di una conquista, di un privilegio. Solo chi conosce la fatica del lavoro studia con passione, perché sa che anche lo studio è un lavoro, ma più comodo e più bello. Tutti vorrebbero fare l’università, ma ricordiamo che il Politecnico di Milano nacque nel 1838 come “Società incoraggiamento arti e mestieri”, cioè nacque dal basso, stile “don Bosco”: formava giovani artigiani che sarebbero poi diventati la classe dirigente del nostro Paese.
Il messaggio era chiaro: senza aver tirato la lima non si diventa professore universitario o capitano d’industria. Perché nella lima che brucia tra le dita, nelle mani che con fatica impastano il pane, c’è il segreto del mondo, e chi non hai mai messo le “mani in pasta” non può capire. Se un giovane provasse per qualche anno a raccogliere la frutta e la verdura nei campi conoscerebbe la gioia che si prova – alla fine di una giornata – ad essere stato “parte di un Tutto”, chiamatelo Dio, chiamatela Natura, chiamatela come volete, ma è così. Essere “parte di un Tutto” significa non essere più soli, significa essere pieni di gratitudine, alla fine di una giornata di lavoro, davanti allo spettacolo del tramonto che accarezza i campi ben arati.
Come scriveva Erich Fromm nel suo L’arte di amare (altro libro culto degli anni 60) anche l’artigiano si unisce in qualche modo alla materia e sperimenta con essa una comunione che gli riempie la vita e non lo fa sentire solo.
Per capire tutto questo basta osservare, alla base del Duomo di Milano, gli archetti pensili scolpiti nel marmo che corrono lungo tutto il perimetro. Ogni archetto è sostenuto da piccoli capitelli scolpiti, uno diverso dall’altro (una foglia, un animale, un volto o un fiore), e che sono la firma di umili, anonimi scalpellini che hanno voluto lasciare il ricordo del loro lavoro. Una fatica in più? O l’orgoglio di essere stati attori, col proprio lavoro, di un disegno più grande e nobile – il Duomo di Milano – che ha sfidato i secoli? Perché, chi l’ha detto che essere muratori, scalpellini o falegnami sia un lavoro umile e da ignoranti? Per essere falegnami, per esempio, occorre frequentare una scuola d’arte dove si studiano molte materie, si impara a disegnare dal vero e in prospettiva e a intagliare il legno senza spaccare la vena. Roba che un professore universitario nemmeno si sogna.
Allora è l’amore, la passione per la materia che occorre suscitare o ri-suscitare nei giovani. Da parte della politica, dire che al lavoro dei campi, sulle impalcature dei cantieri o nelle botteghe artigiane ci pensino gli immigrati significa davvero essere razzisti: perché “loro” dovrebbero fare quello che “noi” non vogliamo fare? 300mila posti di lavoro agricolo o alberghiero sono una preziosa palestra per i nostri giovani. Dovremmo privarli di questa opportunità, di questa esperienza elementare – “sul campo” – che li farà diventare grandi?
Non possiamo permetterci di privare la nostra società dell’apporto dei giovani, delle loro forze migliori. L’aveva capito bene un santo come don Giovanni Bosco istituendo le scuole professionali. Studio e lavoro costruiscono personalità equilibrate, forti, mature. La scuola è il luogo dell’integrazione vera. Allora, italiani e migranti, si ricominci tutti dalla gavetta per sentire davvero la “musica del lavoro”.
Ancora Gibran ce lo ricorda con la voce del profeta: “Allora un aratore disse: parlaci del lavoro. Ed egli rispose dicendo: voi lavorate affinché possiate procedere di pari passo con la terra e l’anima della terra. Poiché essere oziosi significa farsi estranei alle stagioni, e uscire dalla processione della vita che marcia con maestà e fiero ossequio verso l’infinito. Quando voi lavorate siete un flauto attraverso il cui cuore il sussurrare delle ore si converte in musica. Chi di voi vorrebbe essere una canna, muta e silente, quando tutto il resto canta insieme all’unisono?”
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