Siamo ai primi di maggio; sono i giorni in cui, guardando l’agenda, si programma la conclusione della scuola. La sensazione è quella di essere su un crinale. Da una parte non è più il tempo in cui pensare grandi proposte o incontri, dall’altra non è ancora iniziata la rincorsa affannosa degli ultimi giorni per espletare tutti gli impegni: la preoccupazione principale è quella di tirare le fila dell’anno scolastico, portando a termine, nel tempo che resta, valutazioni e argomenti da concludere. Non siamo alla corsa finale, ma la percezione è che buona parte dell’anno sia già andata. È stato un anno bello e intenso: ormai le grandi questioni da affrontare sono state introdotte, più volte sono emerse le domande fondamentali non solo delle mie discipline, ma anche quelle che toccano la vita di ogni studente e docente e che riguardano ogni persona. A più riprese siamo rimasti colpiti, qualche volta il singolo studente, altre l’intera classe, altre ancora semplicemente io come docente di fronte a intuizioni, interrogativi, esposizioni di qualche alunno; ora, invece, sembra arrivato il momento in cui prevalgono la ferialità e la quotidianità del lavoro da svolgere diligentemente.



Nulla di negativo o di male, ma ci siamo forse lasciati alle spalle il tempo dello stupore? Non si esclude a priori che possa accadere di nuovo un incontro tra la nostra umanità e quello che si studia, ma non è più questa la preoccupazione principale.

Una simile constatazione spalanca in me una domanda molto più grande e radicale, che investe tutto l’anno scolastico: che cosa c’entrano quei momenti luminosi con la semplice monotonia del lavoro e con la fatica dell’impegno, le intuizioni profonde con tante ore meno luminose e più grigie?



Mi vengono allora in mente tanti momenti di lezione o di incontro con i ragazzi occorsi negli ultimi anni, come lo studente che, il primo giorno di scuola, mi chiede di raccontargli della mia vita perché è tanto che non vede un prete; penso anche alla curiosità e agli interrogativi seri e profondi che suscita l’impatto iniziale con un “animale raro” come un sacerdote docente di storia e filosofia.

Che ne è stato poi, nel resto dei giorni, di tutte quelle domande, di tutto quello stupore? Non sempre ci si meraviglia, ma possiamo accettare che il resto del tempo sia solo un intervallo, più o meno lungo, tra due momenti di stupore e di intensità?



Ben presto ci si accorge che la questione non riguarda esclusivamente qualche docente e i suoi alunni, ma investe tutti gli ambiti e gli aspetti dell’esistenza: che cosa succede dopo che ci si è innamorati? Che cosa capita quando si inizia finalmente un lavoro che si è atteso o si inizia a vivere in famiglia non appena ci si è sposati?

Ogni studente almeno una volta ha avuto un qualche momento di stupore o anche solo di contraccolpo per qualcosa che non gli torna, che non gli è chiaro, che si aspettava fosse diverso; ma il vero problema è se questo diventa l’inizio di un percorso, se insieme al fascino si avverte la possibilità di un cammino. Altrimenti, anche lo stupore può rischiare di essere solo uno stagno in cui sguazzare un poco, finché non ci si accorge che la pozza è troppo piccola. Ci si può persino stancare di rimanere colpiti da cose belle, se alla lunga si avverte che non mettono in moto e se non sono accompagnate e sostenute.

Col passare degli anni ho compreso che prendere coscienza di quello che stupisce non basta: occorre, subito dopo, chiedersi se lo stupore possa diventare una strada e suggerire determinati passi per viverlo.

È la stessa esigenza che mi spinge a desiderare che l’innamoramento diventi amore, che la passione per qualcosa e il desiderio di non vivere inutilmente si trasformino in lavoro.

Una prima risposta a tutti questi interrogativi così decisivi la ritrovo nella mia stessa esperienza di studente: mi sono stupito all’inizio del mio percorso, ma anche quando, dopo alcuni anni, ho rivisto voltandomi indietro i passi fatti. Se ripenso a quando ero sui banchi mi ricordo tanto di alcuni maestri, dell’incontro con determinati autori, di certi momenti di lezione, quanto delle ore sui libri, delle settimane fitte di verifiche, delle sessioni universitarie trascorse in biblioteca o a ripetere esami. I primi ricordi sono quelli di ciò che mi ha stupito fin da subito, più improvvisamente, in modo più personale: sono legati alla scoperta di quello che ero davvero, che prendeva e coinvolgeva me direttamente. Gli altri momenti, quelli più ordinari e talvolta faticosi sono sempre stati accompagnati da chi – compagni di studio e insegnanti – condivideva con me il cammino intrapreso; tali momenti sono stati lentamente così incisivi da costituire la scoperta di quello che io potevo diventare, al di là di quanto immaginavo o progettavo.

Mi stupisce che la vita sia andata avanti e mi abbia sostenuto, anche se non sempre ero entusiasta o particolarmente colpito e interessato. Proprio questa esperienza mi ha reso ancora più grato per quello che mi affascinava e ha permesso che lo stupore non diventasse mai oggetto di una pretesa, ma rimanesse sempre un dono.

Ci sarà ancora stupore nelle prossime settimane di scuola? Me lo auguro, ma mi auguro anche che il tempo che ci attende, con tutti i suoi impegni e scadenze, ci aiuti a capire che una strada c’è.

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