Un dialogo su scuola, educazione e futuro con la professoressa Raffaela Paggi, rettore delle Scuole della Fondazione Grossman, a Milano, che si prepara per l’imminente Open Week (due le date principali, il 7 e il 21 novembre). La Open Week si terrà quest’anno in modalità telematica col coinvolgimento di docenti, studenti e famiglie. Tra sfide educative e didattica in sicurezza, la Fondazione Grossman è pronta ad accogliere i suoi futuri studenti. Centrali, oggi più che mai, il patto scuola-famiglia, il dialogo tra docenti e alunni e la riscoperta di due principi cardine: la libertà e la ragione, perché nessun ragazzo sia più portato a pensare che non ci sia per lui un posto nel mondo.
Quando si terrà la Open Week di quest’anno e in che modalità?
Il desiderio di incontrare nuovi studenti e nuove famiglie non si è arrestato nonostante i tempi e l’impossibilità di fare attività ed eventi in presenza. L’idea è stata quella di dilatare il tempo dell’Open Day e dedicare quindici giorni agli incontri. Ci saranno due eventi, sabato 7 e sabato 21 novembre, due live streaming in cui prima si presenteranno le varie scuole (il 7), poi ci sarà la possibilità di porre domande (il 21).
I contenuti?
Durante i quindici giorni l’idea è di pubblicare sul sito degli esempi, delle testimonianze di vita nella scuola. Abbiamo preferito non fare solo video istituzionali, ma esemplificare il più possibile, attraverso singoli argomenti o attività, quelli che sono i fondamenti della nostra scuola, la concezione che abbiamo della didattica e delle diverse discipline. Questo vorrà dire anche video un po’ più amatoriali, ma ci interessava incontrare le persone attraverso il racconto di una vita. Questa è la scelta che abbiamo fatto e sta coinvolgendo gli studenti, i docenti e i genitori, che si sono trovati a filmarsi, registrarsi. Abbiamo messo in moto tutte le componenti perché non vogliamo privarci della possibilità di farci conoscere e anche di conoscere: in questi eventi non accade solo un dare ma anche tanto un ricevere.
Parliamo dell’offerta formativa della Fondazione.
Noi abbiamo tutti i livelli della scuola, dalla scuola dell’infanzia ai licei. E per i licei gli indirizzi sono il classico e lo scientifico. In più la scuola d’infanzia è bilingue (italiano-inglese).
Didattica a distanza: com’è stata la prima esperienza e quali sfide sono emerse?
Esco proprio adesso da un collegio di due ore con i docenti del liceo scientifico. Abbiamo voluto rivedere insieme tutto quello che abbiamo scoperto durante il lockdown, le esperienze che avevamo già raccolto tramite sondaggi, lettere e scritti. Nella privazione della relazione fisica ci siamo accorti di cosa è veramente importante.
Ci dica.
Anzitutto che la presenza non è secondaria per la conoscenza. Spesso si pensa che si vada a scuola da un lato per apprendere, dall’altro per socializzare. In realtà non è così, la socialità è condizione imprescindibile della conoscenza, si conosce affettivamente nella libertà, nel dialogo, nella possibilità d’interazione, facilitati dalla presenza. Questa esperienza ha dato conferma di un’intuizione che c’era già e che si è resa molto evidente: la conoscenza è affettiva.
Le nuove tecnologie possono aiutare a colmare questa mancanza?
Attraverso ciò che le nuove tecnologie offrono come possibilità si è cercato di tenere viva la relazionalità. Non si può dire che non ci siano state materie più penalizzate, infatti il tentativo di questo periodo è quello di non fermarsi a ciò che abbiamo scoperto, ma di affrontare la nuova fase, che è ancora più difficile.
Perché?
Perché avevamo provato l’ebbrezza del rivederci, e poi c’è un senso di frustrazione negli adulti che hanno lavorato tutta l’estate per mettere la scuola in sicurezza, e anche nei genitori, che ci hanno aiutato, e negli studenti, che finalmente si erano ritrovati. Adesso è ancora più difficile psicologicamente credere in quello che si dovrà fare da domani, e cioè, per i più grandi, stare a casa e far lezione a distanza.
Ci si era attrezzati sia psicologicamente che materialmente.
Il lavoro per mettersi in sicurezza è stato ingente, chi l’ha fatto l’ha fatto seriamente ed è stato impegnativo da tutti i punti di vista: energie, idee, progetti, logistica, economia.
Sicuramente un lavoro che resterà utile per il futuro.
Nulla è mai inutile, ma il senso di frustrazione si sente, quindi quello su cui come docenti ci si sta aiutando di più è il raccontarsi in un dialogo molto serrato e leale tutto ciò che si sta mettendo in atto, perché l’esperienza di uno possa diventare patrimonio di tutti. È molto importante che le scuole in questo momento non si percepiscano come tante individualità, ma come un corpo docente che comunica, che condivide. Da soli penso che sia impossibile far scuola ed educare, adesso più che mai.
Qual è stata la maggiore difficoltà che avete affrontato?
Per ogni età ci sono criticità diverse da affrontare. Anche pensando a un liceo, nei primi anni c’è il problema della metodicità iniziale, della sistematizzazione di un metodo, che è più difficile da fare a distanza perché quel lavoro che si fa a lezione, su cose anche molto concrete, a distanza viene un po’ meno. Sui piani più alti quello che si è visto essere più penalizzato è la flessibilità che gli anni orientativi richiedono e quindi la possibilità per ciascuno di approfondire alcune materie e alcune strade in un orario un po’ più libero. Gli orari e gli spazi sono più rigidi adesso.
E la disciplina?
Dal punto di vista della disciplina abbiamo deciso di puntare sulla responsabilità e sulla scelta personale: abbiamo proprio dichiarato ai nostri alunni che non avevamo le armi consuete e quindi dovevamo e dobbiamo appellarci soprattutto al loro desiderio: desiderate conoscere o no? Desiderate stare insieme o no? Desiderate dialogare o no? Questa è un po’ la sfida educativa di oggi, essere autorità non tanto impositive quanto capaci di testimoniare una vitalità e, testimoniandola, coinvolgere altre libertà e imprenditorialità.
Sono questi i pilastri della vostra proposta educativa?
Leggevo poc’anzi la frase di un sociologo, Azurmendi, che dice l’aspirazione “a fare con creatività tutto ciò che facciamo, a farlo come se da esso dipendesse ciò che possiamo essere”. Mi è piaciuta tantissimo questa idea della scuola come il luogo in cui uno può buttarsi con la sua creatività e imprenditorialità per vedere che cosa può essere, per scoprire le sue potenzialità e il suo destino. Ragione e libertà sono i nostri pilastri, dire ragione e libertà significa dire due grandi potenzialità che uno pian piano scopre in sé facendo, argomentando, sbagliando, correggendosi. La scoperta dell’umano nell’umano, come dice Grossman, credo sia la vera sfida in una società, come quella di oggi, che sembra credere poco nei giovani.
E in cui c’è un grande vuoto, di fronte al quale i ragazzi si trovano spesso disorientati, scoraggiati…
Questo è il timore più grande che ho io, sinceramente. Mi preoccupa che un giovane possa pensare che per lui in questo mondo non c’è posto, che la sua azione non incida, che non abbia un futuro. Questo credo sia quello cui noi come adulti dobbiamo stare più attenti in assoluto: favorire la fiducia in una realtà che è sempre e comunque positiva: anzitutto perché c’è, e poi perché la si può conoscere e ha bisogno di ognuno di noi. A questo la scuola deve tenere particolarmente, perché tutto sembra dire il contrario.
Centrale anche il ruolo della famiglia?
Il dialogo fra adulti è fondamentale, fra i docenti ma anche tra genitori e docenti, una relazione che deve essere stretta perché non prevalgano appunto lo sconforto, la rabbia e la paura. C’è in questo momento lo sconforto dei mille problemi nella gestione della famiglia, c’è la paura della malattia, allora bisogna aiutarsi ancora di più in una posizione umana, anzitutto, cioè capace di ascolto, certa del bene e propositiva di una strada per i giovani.
Forse una situazione difficile come quella che stiamo vivendo può aiutare in questo senso.
Io credo che abbia già aiutato tanto. Proprio ieri parlavo con una persona che si occupa di relazioni internazionali e mi diceva come sia impressionante, andando in Paesi quali la Siria e il Libano, vedere che questa situazione ci ha reso molto più fratelli, più capaci di capire al volo il bisogno dell’altro. È come se si partisse da una fragilità, da un problema comune. Non ci si può fermare qui, ovviamente, ma è come se ci si fosse messi per una volta tutti in ginocchio insieme.
E quella fragilità c’è sempre però di solito non la vediamo.
Ecco, ce ne siamo accorti e questo ci ha reso più semplici nel rapportarci l’un l’altro.
(Emanuela Giacca)