Ho sempre pensato che non servisse a nulla cercare di impedire l’uso degli smartphone a scuola, ma dopo aver letto The Anxious Generation. How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness (Allen Lane, 2024) di Jonathan Haidt, psicologo sociale, ho qualche ripensamento.
Immaginavo che l’espulsione dei telefonini avrebbe comportato una guerra e non volevo che si innescasse. Ritenevo che il loro divieto fosse impossibile da attuare e che avremmo iniziato a giocare a “guardie e ladri”, con i professori nel ruolo delle guardie, impegnati a scovare i cellulari nei calzini degli alunni e questi ultimi, nel ruolo dei ladri, a nascondere la “refurtiva” dei cellulari di riserva (oltre quello consegnato ufficialmente). Tutto ciò mi pareva ridicolo e almeno parzialmente lo è, ma forse vale la pena di combatterla, la “guerra dei telefonini”.
Haidt spiega, infatti, in maniera documentata, che l’epidemia di malattie mentali adolescenziali, che ha colpito i giovani di molti Paesi e che attualmente si acuisce, è cominciata quando i bambini, a partire dagli anni 80, si sono allontanati dai giochi liberamente praticati per seguire quelli elettronici. È avvenuto cioè il great rewiring, con il passaggio dal mondo reale alla vita online. Il colpo decisivo alla spontaneità del gioco e alle immense potenzialità di crescita che esso offre, poi, è arrivato intorno al 2010 dagli smartphone, che consentono di collegarsi a Internet e di visitare qualsiasi sito (anche i più pericolosi), di entrare nei social e cominciare il gioco frustrante delle comparazioni con gli altri.
Come raccontano le cronache, ciò può comportare lo shaming, l’umiliazione cui talvolta sono seguiti anche gesti estremi, quando le persone sono esposte alle critiche e alle offese degli haters che popolano numerosi la rete. Luca Ricolfi ha spiegato che particolarmente le ragazze subiscono fortissime frustrazioni, con i social, perché, considerati gli ideali di perfezione estetica, nessuna di loro può mai dirsi soddisfatta. Pure i ragazzi pagano il loro prezzo, sebbene “fortunatamente” si misurino anche con altri parametri quali la prestanza fisica, il successo sportivo, il coraggio delle sfide e non solamente con il canone della bellezza, che loro stessi vivono come un ideale impossibile di perfezione metafisica. Le ragazze, dunque, soffrono maggiormente i disturbi di depressione, di ansietà, di autolesionismo e sono soggette al malessere che talvolta sfocia nell’ideazione del suicidio, che non a caso cresce proprio in questo contesto di genere. In conclusione, the great rewiring, il grande ricablaggio, ha interferito con lo sviluppo sociale e neurologico dei bambini e degli adolescenti.
Per questo Haidt offre vari suggerimenti che indirizza, anzitutto, alle istituzioni politiche, poi alle scuole e, infine, ai genitori.
Per quanto riguarda il primo destinatario, egli si rivolge specificamente ai governi federali degli Stati Uniti, ma il suo discorso riguarda anche le istituzioni di altri Paesi, considerata l’ampiezza dei dati raccolti. Ebbene i governi dovrebbero prendere atto che, al fine di prevenire la diffusione del disagio psicologico, sarebbe opportuno rivedere le norme che spingono le famiglie e le scuole, da un lato, ad adottare atteggiamenti iperprotettivi verso i bambini e gli adolescenti e, dall’altro, ad alzare l’effettiva necessità di protezione di questi ultimi dal mondo virtuale. Per correggere questo atteggiamento è opportuno emanare leggi che vietino l’uso di Internet ai minori di 16 anni. Contestualmente, le compagnie che gestiscono i social dovrebbero essere obbligate a verificare, molto più scrupolosamente di quanto facciano oggi, l’effettiva età di coloro che si iscrivono ai social stessi. Per quanto riguarda l’iperprotezione degli alunni, dovrebbe essere rivista la normativa relativa alla cura e alla vigilanza dei minori, nel senso di attenuare alcune ingiustificate restrizioni e obblighi educativi. Haidt, infine, consiglia i governi degli Stati federali di puntare su strategie educative basate su apprendimenti laboratoriali e sull’apprendistato (courses with a lot of hands-on experience), particolarmente per i ragazzi che non si sentono portati allo studio teorico.
Per ciò che concerne le scuole, esse dovrebbero assumere lo stato di “phone-free”, cioè libere da smartphone (da depositare in appositi contenitori prima dell’entrata), incrementando al contempo il “libero gioco”, che consente lo sviluppo di competenze sociali e la riduzione dell’ansia. In merito a quest’ultimo, osservo che il sistema giuridico scolastico italiano non predispone certo gli insegnanti ad abbandonare la costante supervisione. Bisognerebbe intervenire in senso legislativo offrendo regole comportamentali tali che, alla luce di appositi percorsi educativi finalizzati alla costruzione dell’autonomia personale degli alunni, siano attenuate le responsabilità dei docenti. In sostanza, occorre fare in modo che, se un bambino cade e si sbuccia un ginocchio, le maestre non debbano essere chiamate in causa.
Riguardo ai genitori, infine, Haidt offre quattro regole, che sono le stesse consigliate ai governi e alle scuole, ma declinate adesso dal punto di vista dei genitori. La prima è quella di non consentire ai figli l’uso degli smartphone prima della “high school” (che va dai 14 ai 18 anni circa). In alternativa, i figli potrebbero usare cellulari privi di collegamenti online. La seconda è che non si usino i social prima dei 16 anni; la terza che si scelgano le scuole che abbiamo definito come “phone-free” e la quarta che gli alunni possano giocare liberamente, senza una ingombrante supervisione neppure da parte dei genitori.
Haidt, negli Stati Uniti, è diventato una sorta di profeta cui si rivolgono scuole e genitori per avere consigli. Tutto ciò fa parte dell’industria culturale americana che trasforma gli intellettuali rinomati in veri e propri guru. Forse non tutto ciò che egli scrive si adatta al nostro modo di vedere, tuttavia l’impostazione del suo discorso contiene alcuni spunti da non sottovalutare. Uno di essi è che le regole di vita scolastica possano determinare cambiamenti educativi molto più importanti dell’adozione di nuove linee di indirizzo. Forse sarebbe utile porre degli sbarramenti costituiti da esami di Stato oggettivi e omogenei in tutto il territorio nazionale, affidando alle singole scuole la scelta dei programmi da perseguire per fare in modo che i loro alunni superino nel modo migliore quegli stessi esami.
Gli inviti di Haidt, in sostanza, rimandano all’idea che le scuole possano essere riformate a partire dalla vita organizzativa. Non va dimenticato, infatti, che il nostro sistema scolastico è ancora oggi regolato dai decreti delegati (malfunzionanti) di mezzo secolo fa. Forse più che acquisire il nuovo carburante delle linee di indirizzo, alle scuole servirebbe un motore diverso di governance, cioè nuovi modelli gestionali.
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