C’è chi la esalta come la nuova frontiera della didattica, chi invece la stronca come l’ultimo stadio prima della catastrofe culturale della scuola italiana. La Didattica a distanza (Dad), che nei decreti ministeriali è già affiancata dalla Didattica integrale digitale (Did o Ddi), in un fiorire di acronimi creati quest’anno dal ministero dell’Istruzione senza precedenti, non è altro che il ripiego in cui le superiori sono state costrette a sopravvivere dopo i decreti di novembre, che nonostante i colori delle regioni (giallo, arancione o rosso), prevedono che i ragazzi più grandi frequentino le lezioni da casa, davanti a un computer.
Gli esterni alla scuola, gli esperti che parlano ore e ore in tv, tuttavia non sanno cosa accada nelle pieghe di questa modalità che tiene tutti distanti e che uccide la relazione, uno dei pilastri della scuola, sin dalla sua invenzione. È uno dei divertimenti più frequenti degli studenti, che in qualche modo devono supplire all’isolamento coatto e che, non potendo divertirsi goliardicamente con i compagni di classe, prendono di mira i docenti. Lo strumento più utilizzato è lo screenshot delle facce degli insegnanti, che vanno a confluire in un catalogo ben fornito, modificato con baffi e boccacce, che poi permette il diletto con i compagni sui social.
Un museo del grottesco che coglie attempati docenti di matematica o giovani insegnanti di lettere intenti a destare l’interesse dei loro alunni, inchiodati sulla seggiola della propria cameretta. Rinasce poi la figura del suggeritore, che invece di essere infilato nella buca, è accomodato dietro le webcam. Amici, fratelli o sorelle, ma anche madri desiderose di aiutare i figli per ottenere l’agognato sei nell’interrogazione, munite, invece che di copione, di libri, schede, appunti o telefonino, che suggeriscono le risposte accentuando il labiale. Peccato che in alcune occasioni l’inganno sia stato svelato da un innocente specchio sulla parete che ha rivelato l’arcano segreto, con nota sul registro attribuita, più che allo studente somaro, al genitore truffaldino.
È poi noto che la rete internet italiana sia al limite della portabilità di milioni di studenti e docenti. Nelle aree urbane, a parte blocchi temporanei e riduzione della velocità di download, non sembra ci siano stati particolari problemi. Le difficoltà sussistono nelle aree periferiche o montane, dove in alcune zone non è ancora arrivata non la fibra, ma c’è ancora l’Adsl. Molti ragazzi, nonostante tutto, si divertono a creare difficoltà apparenti. Usano un’applicazione di un noto social che col fermo immagine inibisce o rallenta o sgrana le videocamere. Un bel modo di prendersi una pausa, sdraiarsi sul letto ristoratore, mentre dall’altra parte si parla inglese o si discute di Leopardi. Oppure non è difficile crashare il computer nel momento critico di una verifica o quando si è scoperti disattenti. Tanti i piccoli escamotage – come quello di mettere del nastro adesivo sulla videocam per opacizzarla e rendere il tutto meno nitido per non farsi beccare dai prof -, messi in atto da ragazzi annoiati e stanchi di posizionarsi per ore davanti a un monitor. Non è una banalità affermare che la scuola davanti a un pc è più faticosa, per studenti e insegnanti.
Un altro aspetto più serio, che la dice lunga sul digitale applicato alla didattica, riguarda la presenza non dichiarata dei genitori che ascoltano le interrogazioni dei figli e poi contestano il voto. È accaduto a un insegnate umbro di storia, che mezz’ora dopo il termine della lezione si è visto recapitare un messaggio WhatsApp, con circostanziate osservazioni sulle risposte dello studente da parte di una madre che in questo modo rivelava la sua presenza occulta nell’aula virtuale di Google. L’accaduto ha generato una discussione sulla chat dei docenti di quel liceo. Oltre all’errore educativo di una madre apprensiva, che, invece di rispettare l’autonomia del figlio e del professore, si incunea nel rapporto valutativo senza averne titolo e senza aver assistito agli altri momenti didattici, emergono anche risvolti legali.
Infatti l’entrata a gamba tesa, che ha portato alla contestazione del voto, ha prodotto un testimone non contemplato dalla legislazione scolastica. In più le risposte che il docente ha ingenuamente ha postato su WhatsApp per giustificare il proprio comportamento potrebbero essere utilizzate da un legale in un eventuale contenzioso sulla bocciatura del ragazzo a fine anno. “Non dovevi scrivere nulla”, gli hanno rimproverato i colleghi, per cui la Dad e anche i social utilizzati dalla stragrande maggioranza degli insegnanti italiani hanno una doppia faccia. Riavvicinano distanze siderali create dalla pandemia, ma possono essere uno strumento che altera il dialogo educativo e insinuano una sfaccettatura legale, già accentuata dal comportamento dei genitori di inizio millennio, che tendono a giustificare e a sostenere a spada tratta i figli sempre e comunque. Da una cameretta in cui si ascolta l’interrogazione all’aula di un tribunale, il passo potrebbe essere breve.