Di lui Cesare Cavalleri ha scritto che è “un talento allo stato puro”. Davide Brullo nella nostra scena culturale ha assunto il ruolo di provocatore indomito, di intellettuale dissidente, come si chiama il suo blog. Creatore del quotidiano culturale Pangea, uno dei siti più visitati e interessanti del web, è poeta originale e potente e un critico tra i più detestati in Italia, inviso e denunciato da molti. Tra i suoi libri, Stroncature gli ha procurato nemici bipartisan. Ha tradotto i Salmi, ha pubblicato romanzi e raccolte di poesie.  L’ultimo suo libro è Lince, edito da Crocetti. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto tra letteratura e scuola.



Oggi la letteratura, soprattutto per quanto riguarda i classici italiani, sopravvive grazie alla scuola. Ai nostri giovani viene proposto, pur con molte differenze tra scuole e insegnanti, un canone che generalmente va da San Francesco fino a Montale e Ungaretti. Si ritiene, con un’impostazione che risale a De Sanctis, che la letteratura svolga un ruolo nella formazione civile dei cittadini italiani. Il risultato, sconfortante, è che oggi molti ragazzi/e una volta finite le superiori, non vogliono più saperne di questi autori. Alcuni scrittori sostengono provocatoriamente che bisognerebbe rendere facoltativo l’insegnamento della letteratura. Lei cosa ne pensa?



Che ci sia lotta, rifiuto, fino al vomito e alla sovversione è noto e naturale: la letteratura non è neutralità ed è impossibile comprendere il magma di Alessandro Manzoni – il male nominato, l’Innominato, le perversioni della Monaca, la colonna delle infamie, la peste che induce al perdono, l’epica dell’assassino che si fa folle di Dio – al liceo. Per fortuna, il romanzo getta rovi in faccia, lancia in un dedalo di contraddizioni, non lascia indenni: annoiato, semmai, una palude di individualità scomposte, lo scempio della personalità, è il nostro tempo, che al tangibile sostituisce il digitale, all’immaginario l’indotto, al creato il consumo. Che i ragazzi si annoino leggendo Leopardi che dice tutto di loro, e per generazioni; che restino distratti mentre il prof intona l’endecasillabo montaliano, “e persistenza è solo l’estinzione”; quando racconta di fogli sparsi, in trincea, lambiti dal silenzio e di quel soldato, Ungaretti… che importa? Per pochi è la letteratura, che non ne vogliano sapere misura la sua pericolosità, il grave. Si sveglieranno, da grandi, disfatti da un verso appena ricordato, nebuloso: capiranno che la vita è una resa, va rosa fino all’osso, e molleranno tutto, seguendo morgane improvvise, dando fede soltanto al miracolo. Così è. La letteratura è una sequela, una chiamata, un contagio.



L’educazione, compresa quella letteraria, deve contemplare la gradualità e il rispetto per un’età in formazione, come quella dei giovani. Maxima debetur puero reverentia, dice una massima latina: al fanciullo si deve il massimo rispetto. Anche il Vangelo raccomanda il rispetto dei piccoli: “sarebbe meglio per lui che una macina da mulino gli fosse messa al collo e fosse gettato in mare, piuttosto che scandalizzare uno solo di questi piccoli”. È facile, tuttavia, scivolare dal doveroso rispetto all’ipocrisia e al moralismo. Nabokov racconta che nei college inglesi degli anni 50 venivano proposte letture purgate di Chaucer o Boccaccio a giovani che di notte si permettevano le orge più sfrenate. Si tratta di un rischio inevitabile?

Essendo un testo sconfinato, incontaminato, il Nuovo Testamento può essere citato come ci pare: agli abitanti di Corinto Paolo, proprio per ammonire gli ipocriti e i facili, diceva, “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi”. Scandaloso è chi crede di dover “tutelare” i piccoli per difendere le proprie posizioni, o, peggio ancora, le proprie infantili idee educative. Secondo Isaac B. Singer, il grande scrittore Nobel per la letteratura nel 1978, “non importa quanto siano piccoli, i bambini sono assai interessati alle questioni eterne: chi ha fatto il mondo? Chi ha fatto la Terra, il cielo, gli uomini, gli animali? […] I bambini riflettono e si interrogano su questioni come la giustizia, il senso della vita, il perché del dolore”. Non cedo alla retorica – opposta ed egualmente idiota – dei bambini come assoluti sapienti – così riteneva Eraclito, che, secondo Diogene Laerzio, preferì giocare a dadi con i bimbi, all’ombra del tempio di Artemide, piuttosto che fornire una costituzione agli efesini; salvo, infine, ritirarsi nei boschi, a vivere con le bestie – ma è insipiente, un autentico cattivo maestro, chi si crede superiore ai bambini. D’altronde, questa è l’epoca che ha terrore delle grandi opere letterarie, sempre urtanti, urticanti, contraddittorie, che rovina nella vanità moralista, incapace di sagacia estetica. La letteratura si sussurrerà nelle catacombe, allora, tra pochi accoliti, ci scambieremo parole salutari e avvelenate come il fuoco, come il pane. Ai bambini, da subito, vanno date da leggere le storie della Bibbia, i libri omerici, i grandi miti, altro che gli album delle favole liofilizzate dai contemporanei: c’è tutto, lì dentro, in quei testi arcani e arcaici, la morte e la ferocia, il caos e la gloria, l’amore e il massacro.

Veniamo a un caso esemplare: Pascoli, un poeta letto dalle elementari all’università. Affermava: “Come scrittore e poeta io suppongo sempre avanti a me un pubblico di fanciulli e di fanciulle; e questa immaginata corona di uditori innocenti dà a ciò che dico quella verecondia che non è virtù del mio animo, sì necessità del mio compito, gli dà non so qual persuasiva dolcezza”. Con questo Pascoli convive un altro Pascoli, quello del Gelsomino notturno e di Digitale purpurea, nutrito di ossessioni morbose, testi su cui si è sbizzarrita la critica psicanalitica. Quali testi pascoliani farebbe leggere, ad esempio, in una scuola superiore?

Tutto va letto, tutto va amato, tutto va sputato. Il lettore è sempre un vagabondo che si aggira tra labirinto e lebbrosario, tra roveto e rovina. Pascoli è il genio assoluto della nostra poesia moderna: avesse avuto un’esistenza alla Baudelaire, alla Rimbaud, per dire, sarebbe onorato come un dio – ma il genio, pare, va espiato. Non sono un critico, sono quasi nulla, ma basta leggere Pier Paolo Pasolini nel saggio del 1955 che apre la rivista Officina per capire la centralità solare di Pascoli: “L’importo del Pascoli alle forme poetiche del Novecento [è] determinante…. in definitiva la lingua poetica di questo secolo è tutta uscita dalla sua… il ‘plurilinguismo’ pascoliano è di tipo rivoluzionario”. Pascoli va letto e imparato a memoria per impararne il ritmo come modo d’essere, di camminare, di respirare. Per deformazione astrale, amo il Pascoli “cosmico”, che narra la Cometa di Halley, “stella randagia, astro disperso/ che forse cerchi, nel tuo folle andare,/ la porta onde fuggir dall’universo!”, il poeta del Ciocco, un capolavoro, popolare e aristocratico a un tempo, che sfonda le domande indicibili, pazzesche, e organizza in versi il disastro, la fine, l’eternità assassina: “Ma se al fine dei tempi entra il silenzio?/ se tutto nel silenzio entra? la stella/ della rugiada e l’astro dell’assenzio?// Altair, Algol? se, dopo la procella/ dell’Universo, lenta cade e i Soli/ la neve della Eternità cancella?”.

Quintiliano, uno dei padri della pedagogia, affermava la necessità da parte del maestro di “parlare copiosamente dell’onestà e della rettitudine”, perché dalla lettura si ricavino “esempi da imitare”. Si possono conciliare valori di onestà e rettitudine con le provocazioni abissali della letteratura? Quali testi o autori lei proporrebbe a scuola? Con quale metodo? Gli studenti vanno guidati nelle loro scelte, anche letterarie?

L’idea che la letteratura debba essere in qualche modo “esemplare”, “onesta”, dunque utile a una qualche ipotesi educativa, per forgiare buoni cittadini, per lo più obbedienti, addomesticati, è abominevole. La morale muta a seconda delle convenienze, i concetti di bene e male variano secondo latitudini e regimi, la verità del gesto letterario è immutabile. Ogni grande libro dice ciò che non vogliamo sentirci dire, ci mette con le spalle al muro, è un assalto, misura le labbra al silenzio, sutura l’uomo alla sua ambiguità, s’inabissa nelle ombre, per distillare, anche lì, nella muraglia di tenebra, l’ultimo fiotto di luce possibile. I maestri devono essere tali: severi, prossimi, mai “amici”. Pervicaci nella loro tetragona “diversità”: i maestri non rendono “accessibile” il difficile, addestrano alla scalata; non “semplificano”, impongono una regola. Accompagnano gli allievi nel Tartaro e verso l’Himalaya, fino ad essere sorpassati. Insegnino a non confondere il sole con una morgana, lo specchio con il selfie. I grandi libri sventagliano nell’avventatezza: penso a Moby Dick, a Chadzi-Murat di Lev Tolstoj, all’Idiota di Dostoevskij, ai romanzi di Cormac McCarthy, ai racconti di Verga e ai testi, paradossali, di Pirandello; penso alle poesie di Rimbaud e a quelle di Alessandro Ceni – i poeti sono vivi, stanateli dall’indifferenza in cui li confina la nostra era impoetica! –, ai libri perigliosi di Joseph Conrad, ai racconti crudeli di Tacito, ai vertiginosi versi di Laozi. Un libro è un precipizio in altri mondi, e racconta di un uomo la scelta, il tormento, l’errare. Secondo Boris Pasternak, la poesia, proprio perché “è più alta di ogni Alpe conosciuta” va scovata nell’erba, in ginocchio. Già: bisogna avere il coraggio di inginocchiarsi. Al supereroe che domina il cinema recente, per dire, preferisco il santo, come ci infiamma nelle agiografie medioevali, cioè l’uomo che tocca tutti gli estremismi, tutte le infamie, per rivelarsi esatto.

(Carlo Bortolozzo) 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI