La vicenda dell’occupazione a Firenze del Liceo artistico “Alberti Dante”, che adesso richiameremo per sommi capi, sollecita alcune riflessioni. La dirigente si è trovata di fronte a un gruppo di alunni “irriducibili” che, dopo un primo sgombero della sede centrale, ha replicato l’occupazione in un plesso distaccato.



Forse non era agevole neppure da parte delle forze dell’ordine ripetere l’operazione, quindi la preside ha dovuto muoversi autonomamente perché l’occupazione, mentre procurava un’interruzione del servizio pubblico, al contempo inficiava il diritto allo studio di tutti gli studenti in disaccordo con l’iniziativa, i quali generalmente sono la netta maggioranza all’interno delle scuole. Che cosa ha fatto? Ha riattivato la Dad, rendendo possibile la ripresa delle lezioni e contestualmente lasciando che gli occupanti proseguissero la loro protesta. A questo punto sono insorti i sindacati della scuola, sollecitati dai docenti che nuovamente si trovavano alle prese con la Dad, motivata non più dalla pandemia, ma dalla doverosa tutela del diritto all’istruzione degli alunni che dissentivano dall’occupazione.



Quali le ragioni della protesta sindacale? La prima era che la Dad, anche nella forma integrata con le lezioni in presenza, è stata abrogata; la seconda era che l’introduzione della didattica on line, da parte della preside, rappresentava un “sabotaggio” alla protesta degli studenti, evidentemente fondata su alcuni buoni motivi.

Per quanto riguarda la prima, dovremmo approfondire la questione perché, secondo alcuni giuristi, l’interdizione della Dad dovrebbe valere in quanto modalità ordinaria e continuativa di lezione, ma non in ragione di eventi straordinari. Concentriamo il discorso, tuttavia, sulla seconda ragione, quella del presunto sabotaggio degli studenti, perché essa è significativa sul piano pedagogico e riflette, a nostro avviso, un paradigma culturale e politico da rivedere.



Cosa sono le occupazioni? Nel mondo della scuola e anche presso l’opinione pubblica, esse godono di una certa simpatia. Ormai rappresentano una prassi consolidata e sono considerate un po’ come i malanni di stagione: inevitabili. Le contestazioni – si sa – sono tipiche del mondo adolescenziale e, in qualche misura, esse sono assurte a riti di iniziazione per la vita adulta. L’eco dei decenni passati ha poi proceduto ad ammantare le occupazioni di un’aura di ribellione giovanile, le cui radici si pongono nei movimenti giovanili degli anni Sessanta. Esse, tuttavia, hanno perduto la carica ideale di un tempo e sono progressivamente tralignate in ritualità ideologiche, dove gruppi di alunni trascorrono nottate in bianco, spesso alterati per l’uso di sostanze, con atteggiamenti di scarsa o nulla responsabilità verso gli ambienti scolastici. Qualche anno fa, in alcune regioni, si è fatto il calcolo dei danni alle suppellettili e alle apparecchiature dei laboratori per scoprire che essi ammontavano a centinaia di migliaia di euro. Quando gli studenti non acconsentono ad attuare la cosiddetta autogestione, coinvolgendo in una qualche misura la dirigenza e i docenti, le occupazioni hanno quasi sempre quegli esiti.

Ma l’aspetto che ha una rilevanza educativa è quello di considerare le scelte della preside della scuola fiorentina come un “sabotaggio”. Se volessimo adottare gli stessi toni, dovremmo rispondere che si registra, da parte sindacale, una oggettiva “connivenza” con la protesta degli alunni, dacché solo con un tale affinità si può spiegare il fatto che i sindacati pongano in subordine i danni perpetrati o che le occupazioni siano spesso praticate da minoranze di alunni, nel totale dispregio della volontà della maggioranza degli studenti.

Fermo restando che sul piano soggettivo i giovani contestatori possono avere le intenzioni più nobili, le occupazioni sono insensate. La scuola italiana, purtroppo, è mal funzionante e la recente pubblicazione della Fondazione Rocca su I numeri da cambiare ne fornisce ampia testimonianza. Non è questa la sede per sciorinare la teoria di quei numeri che denunciano l’elevato tasso di dispersione della scuola italiana, i gravi deficit dei nostri alunni rispetto ai coetanei degli altri Paesi in alcune discipline fondamentali, la situazione disastrosa della scuola in alcune regioni meridionali, ecc. Rimandiamo alla lettura di quel saggio. Ma la domanda è: cosa c’entra tutto questo con le occupazioni?

La risposta è retorica, dal momento che non c’è alcun nesso e certamente le occupazioni non hanno altri esiti se non quello di peggiorare quei numeri: la perdita di giorni di lezione non può avere altro effetto. Il problema di fondo, dunque, è quello dei significati che dovrebbero animare le rivendicazioni dei giovani.

Viviamo un momento storico di transizione e, mentre incombono minacce spaventose e inattese, come quella della guerra, noi uomini occidentali viviamo una profonda crisi di identità. Una cifra di questa condizione interiore è data dal declino del desiderio sessuale, che – come suggerisce Luigi Zoja – riguarda particolarmente i giovani. Viviamo in una società libertaria dal punto di vista dei costumi, ma le pratiche sessuali deflettono: manca il senso profondo, che è quello della costruzione dei rapporti di amore. Il narcisismo individualistico diventa condizione universalistica e così nella scuola si reiterano, con una scenografia consunta, le ritualità di occupazione, sebbene la loro carica ideale si sia essiccata come nelle foglie autunnali. Vale la pena di ricordare che la ricerca di senso è il mandato che deve essere adempiuto dalla scuola, pena una condizione giovanile di infelicità.

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