Fare scuola. Ma come? Da qualche decennio la ricerca, la scoperta e il riconoscimento del senso del conoscere e dell’imparare sono, giustamente, al centro dell’attenzione di molti pedagogisti e insegnanti. L’insegnamento non può più essere ridotto a una trasmissione di nozioni, informazioni, tecniche e neppure di valori astratti o generici o a una didattica per competenze. Difficile negare che, se non si legano i contenuti particolari dell’esperienza a un senso che tenda a una comprensione totale della realtà, anche il fare scuola rimanga insoddisfacente. Gli allievi si pongono continuamente domande, anche quando rimangono implicite o sovrastate da atteggiamenti che sembrano negarle. Anche gli insegnanti si interrogano, oggi più che in passato, su come fare. Non sono tanto i contenuti a essere messi sotto la lente (dopo l’ubriacatura “negazionista” di qualche anno fa), ma piuttosto il metodo di insegnamento e concretamente l’approccio didattico da adottare nella lezione perché ne esca qualcosa di buono.
Si apre la strada per i “cercatori di senso”, come li chiama il filosofo canadese Charles Taylor, che nel confronto e nel dialogo imparano gli uni dagli altri e danno voce a un interesse reciproco. Nella narrazione (intesa come modalità di condivisione di esperienza e di cultura) i “cercatori di senso” si incontrano mettendo in comune non solo ciò che si deve fare, ma anche ciò che è bene amare (per dirla ancora con le parole di Taylor). Il discorso, ogni discorso può svilupparsi come ricerca narrativa nella forma del racconto; del racconto che anzitutto l’insegnante condivide con gli allievi e poi continua nei racconti degli stessi allievi. In questa prospettiva narrativa tutti i contenuti possono essere comunicati nella forma della narrazione (anche quelli che fanno capo al cosiddetto pensiero paradigmatico, logico-scientifico). Infatti, ogni comunicazione può essere attuata in forma narrativa, attraverso il racconto che comprende il “che cosa” (l’argomento) e il “come” (il modo di trattarlo) e apre la strada per un’infinità di altri racconti, dispiegando nuove possibili connessioni tra fatti e significati.
Porto un esempio di narrazione a scuola che può aiutare a cogliere le grandi potenzialità di una didattica narrativa.
Prima elementare. La maestra legge ai bambini una fiaba intitolata Gatto nero e gatta bianca. Gatto Nero esce solo di giorno, adora osservare le rondini e parlare con il suo amico merlo. Gatta Bianca esce solo di notte, ama osservare le stelle e ha come amica una civetta. Un giorno, spinti dalla curiosità, decidono l’uno di andare incontro alla notte e l’altra di andare incontro al giorno e così si incontrano. Inizia fra loro un’amicizia fatta di scoperte reciproche che sfocerà presto in un sentimento di amore e porterà alla nascita di sei gattini. Prima di proseguire il suo racconto, l’autrice pone la domanda: “Ma di che colore sono?” La storia apre potenzialmente problematiche riguardanti i legami di discendenza, di maternità e di paternità, addirittura di ereditarietà genetica. Gli allievi si pongono la domanda ed esprimono le loro idee. Anche la maestra se l’era posta e subito aveva cercato una spiegazione plausibile. Ebbene, mi confessa, “girando pagina mi sono ritrovata davanti a un finale inaspettato, che mi ha lasciato senza parole e per il quale ho cercato subito di trovare una ragione logica, ma invano”. Nell’ultima pagina si vedono sei gattini tutti arancioni! La maestra, un po’ disorientata e perplessa per la scelta dell’autrice, decide di aspettare e di tenere nascosta la conclusione ai bambini. Si confronta con altri colleghi, ma nessuno riesce a dare una risposta adeguata al contesto, da condividere con tutta la classe. A questo punto affida ai bambini il compito di rappresentare con immagini e frasi il racconto, immaginando come potrebbero essere i sei gattini. I finali inventati dai bambini sono diversi fra loro e anche divertenti; certo, sono molto lontani dalla conclusione della fiaba.
La maestra non si arrende e scrive alla casa editrice del libro sperando di ottenere qualche chiarimento sulla conclusione della fiaba. La risposta non si fa attendere. Suggeriscono di rivelare ai bambini la versione dell’autrice e lasciar spazio alle domande. La maestra riprende il discorso con i bambini e rivela il finale del libro. Apparentemente, nessuna reazione e si cambia argomento. “Il giorno dopo – mi racconta la maestra – ad inizio mattinata mi si avvicina un allievo e mi dice: ‘Sai, io ci ho pensato molto e ho capito perché i gattini della storia sono arancioni; perché Gatto Nero viveva di giorno e Gatta Bianca di notte e i loro piccoli sono a metà: sono arancioni, perché sono come il tramonto’. Rimango a bocca aperta, lo ringrazio per questo suo pensiero che condivido con la classe. Mi ha aperto un mondo!”. Il bambino non aggiunge altro alla sua spiegazione e la maestra, a sua volta, non può che dar seguito a questa narrazione; “il tramonto – mi dice – per quel bambino sembra essere il momento di incontro di entrambi; quindi, forse i gattini sono arancioni per questo”.
Non credo che occorrano altri commenti. Forse, dopo quella giornata, i genitori che hanno interrogato quei bambini su che cosa avessero fatto a scuola, non hanno ricevuto risposte particolarmente chiare e comprensibili. È certo, tuttavia, che il percorso narrativo da loro svolto insieme alla loro maestra ha aperto nuovi orizzonti in cui con lo stesso metodo potranno, crescendo, conoscere un mondo di cose.
Ciò che succede apre nuove ipotesi e ci attira verso la realtà. La narrazione tiene viva questa attrattiva, ci accompagna in ogni momento della vita, è espressione dell’esperienza di noi stessi e del mondo. Raccontando cerchiamo nessi ed ipotesi che spalanchino il nostro sguardo sulla realtà per coglierne il senso in un impegno continuo. Perciò la narrazione è un buon metodo per insegnare e per imparare e anche per accompagnare gli insegnanti nel loro percorso formativo.
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