Prove Invalsi 2024: la notizia sembra essere che non ci sono significative nuove notizie. Il ministro Valditara ha aperto i lavori – tenutisi in Parlamento – con un discorso non di circostanza, ricordando le sue numerose iniziative e riconoscendo il blando miglioramento attestato dai risultati. Una tendenza media positiva post-Covid soprattutto al Sud e nell’ultimo anno delle superiori, una conferma delle per certi versi inattese buone performances in inglese, la matematica sempre male. Più significative a livello di sistema le buone notizie sulla diminuzione graduale della dispersione esplicita (presenza di ripetenti nel sistema) e anche implicita (percentuale di studenti collocati al di sotto del livello minimo di competenze atteso).
L’esperienza di Invalsi e anche PISA dovrebbe averci insegnato che i sistemi scolastici raramente subiscono drastici e improvvisi cambiamenti (il Covid è stato uno di questi), ma che la natura conservativa (in senso buono) e trasmissiva dell’istituzione scolastica porta a mutamenti graduali. All’inizio dell’avventura delle prove standardizzate si pensava che essi potessero essere generati da misure prese sul sistema scolastico stesso, ma che oggi tendono ad essere più attribuite alla storia ed alla cultura dei Paesi e alle loro tendenze di sviluppo (o stagnazione), in cui forse il rapporto causa-effetto fra società e scuola è invertito rispetto a quanto all’inizio ipotizzato. I nuovi posizionamenti apicali dei Paesi dell’East Asia ne sarebbero un importante indizio.
Come prevedibile, questa apparente staticità ha portato gli aperti avversari di Invalsi – ormai peraltro marginalizzati – a chiederne, per l’ennesima volta, se non l’eliminazione, il ridimensionamento; a favore della solita diminuzione degli allievi per classe (a quando dal MIM i dati precisi delle cosiddette classi pollaio?) o degli aumenti di stipendio agli insegnanti (che presumibilmente non riceverebbero molto, ahimè, da una tale misura).
Un’idea più originale è quella di utilizzare tali fondi per una matematizzazione intensiva e si immagina forzosa. Senza controllo dei risultati? Non abbiamo buttato abbastanza fondi europei? In realtà il problema della matematica sembra più grave: è una questione di cultura ed auto-identità del Paese, che si manifesta nel fatto che le future “maestre” vengono dal liceo delle scienze umane, scelto soprattutto perché con poca matematica e molte presunte “humanities”. Non pare poi che i curricoli di scienze della formazione riescano a rimediare. E tutti dicono che una volta arrivati alle “medie” il danno è fatto. Ore aggiuntive sembrano poi particolarmente inadatte alla matematica, che invece sembra necessitare di una ricerca accurata e qualificata che offra agli insegnanti strade metodologicamente diverse per contesti diversi ed anche vie di automotivazione.
Ma è vero allora che l’annuale presentazione dei dati non serve che a riempire con considerazioni banali alcune colonne di giornale nell’espace d’un matin? Il presidente Roberto Ricci nella sua ormai abituale magistrale presentazione dei risultati ha giustamente ricordato che l’Italia ha ormai a disposizione una messe di dati, articolati nello spazio fino alle singole classi e nel tempo fino a qualche decennio fa sul proprio sistema scolastico sulla base di paradigmi valutativi accettati a livello internazionale. Non ci sono molti sistemi occidentali che possano vantare altrettanto.
Dunque, invece di aspettarsi risultati eccitanti ogni anno, bisognerebbe che istituzioni accademiche, scientifiche, eccetera, supportate dal livello politico-istituzionale, cominciassero a sondare quei dati in modo massiccio e sistematico su alcune direzioni cruciali. Renata Viganò, pedagogista e vicepresidente del Cda Invalsi, ha sottolineato nelle conclusioni che occorrono ricerche coordinate. Oggi, anche all’annuale seminario Invalsi di presentazione delle ricerche sulla base dei dati, sembra materalizzarsi la famosa frase di Mao Zedong: “che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino” buona per scatenare la Rivoluzione culturale, ma forse meno per capirci qualcosa della scuola italiana.
Ma quali potrebbero essere queste direzioni?
Innanzitutto il mistero del Sud. Dal punto di vista del sostegno alle decisioni istituzionali e operative, Invalsi ha messo a punto un sistema di individuazione delle situazioni scolastiche più a rischio su cui concentrarsi che non sono solo al Sud, ma sono sparse anche nelle periferie del Nord. Etichettatura dei singoli e delle scuole come i soliti ruggenti ricercatori scandalizzati hanno protestato? Meglio una ignoranza felice, dunque? Mistero del Sud, si è detto. da dove vengono questi risultati che sembrano contraddire l’immagine che il Sud vuole dare di sé di intelligenze vivaci, e che in effetti poi corrisponde alla presenza significativa sia in ruoli istituzionali che in ambiti di ricerca non solo italiani? Dove si infrattano gli eccellenti del Sud alle prove? Che non sono nozionistiche, come ha scritto sorprendentemente un rappresentante sindacale italiano (dopo più di 20 anni dargli una guardatina non sarebbe tempo perso), ma anzi a volte richiedono troppo ragionamento.
In realtà la pista c’è già ed è quella della segregazione sociale: sull’effettiva composizione delle classi ci sono da molto tempo tutti i dati, ad esempio, ma nessuna analisi. Ed anche Invalsi 24 ha parlato di significative differenze fra scuole e classi, al Sud. È curioso che le formazioni politiche che dicono di mettere al centro la giustizia sociale, censurino di fatto questo tema, adagiandosi in stucchevoli analisi in termini di investimenti, risorse, e via dicendo.
Dall’analisi dei risultati PISA da parte dell’Unione europea presentata a gennaio risulta poi che l’Europa è in debito nei confronti dei Paesi con un livello economico simile per quanto riguarda le percentuali di eccellenti, e l’Italia non si fa mancare niente in questa classifica. Qui bisognerebbe capire quanto le scuole hanno fatto a ranghi sparsi in questi decenni e metterlo in relazione con i loro risultati. Ma prima bisogna essere consapevoli che occorre rimuovere la censura sul tema, che viene ancora visto come portatore di ingiustizia e discriminazione. Mentre è evidente che queste agiscono più potentemente se le famiglie sono le sole motivatrici. Potrebbe essere il problema del Sud.
Cose vecchie. Ma una direzione nuova c’è, e deriva dall’analisi di una certa diminuzione dei risultati in alcune aree del Nord che alcuni commentatori non banali hanno messo in relazione con la presenza di un numero massiccio di allievi di origine non italiana, quasi assenti peraltro al Sud. In realtà questa presenza potrebbe essere una grande risorsa, come dimostrano peraltro analisi poco formalizzate che girano: asiatici impegnati, romeni bravi in matematica, eccetera. E lo dimostra la graduale scalata che questi gruppi di studenti stanno dando al sistema scolastico italiano, perché si tratta di impegno per la promozione sociale. E allora perché questa diminuzione?
Forse solo i residui cultori della materia ricordano il caso di una preside emiliana che cercò di organizzare l’inizio anno assegnando i nuovi arrivati non in possesso della lingua per il periodo iniziale in modo intensivo a classi di full immersion linguistica. Apriti cielo! si scatenò un’orgia di demagogia populistica contro discriminazione, labellizzazione e chi più ne ha più ne metta. Non ci si può stupire se i risultati sono questi. La normativa dell’autonomia, una volta tanto invocata a ragione, attribuisce legittimità ad iniziative siffatte, ma il tema è troppo importante a livello di sistema per essere affidato in via esclusiva all’intelligenza ed alla capacità di iniziativa delle scuole. Si spera che le iniziative istituzionali che stanno andando in questo senso possano garantire al nostro Paese di utilizzare le capacità e la buona volontà di chi ha ancora la buona vecchia voglia di studiare (con i metodi del 2024, si capisce).
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