Basta. Bisognerebbe davvero tacere. Imparare dai poeti, come sempre. Diventare sabbia, come dice Kikuo Takano. Essere al risveglio un grappolo d’uva, illuminati dal mistero inesauribile. E vedere sorgere tanto silenzio da addolorarsi quasi. Era quasi un singhiozzo quello del mio amico Giuseppe, nei corridoi della scuola negli ultimi giorni di lezione, mentre Saturno e Giove si allineavano nel cielo e dalle Ande si son visti legati quasi da una scia che può sembrare la cometa. Sembrerebbe infastidito da ogni parola, proprio lui che ha sempre pensato che la scuola è una creatura della stessa specie della poesia, una poesia vivente che dovrebbe dare un nome alle cose.
E allora? Il fastidio, mi dice, è per il rumore insensato che fanno oggi tutte le parole, per il buio dentro il quale tornano con le cose che hanno nominato. Stillicidio quotidiano di dati e rivelazioni, subitamente contraddetti da altri che hanno vita breve quanto i primi. La stessa verità effimera, l’evidenza cancellata, la falsità eretta a sistema, a un sistema praticamente inattaccabile, ermeticamente chiuso dentro il suo vocabolario di contraffazioni ignobili che fiorisce sulle macerie di una realtà dolorosa, gloriosa e sofferente.
Glielo domando: a cosa può servire la scuola oggi, dentro questo Natale negato? Giuseppe mi dice che la risposta è la stessa che Heidegger dava a quell’altra Perché i poeti? contenuta nei suoi Sentieri interrotti. Giuseppe mi dice che la risposta alle due domande ce l’hanno regalata ancora loro, i poeti. Ce l’ha detto la Dickinson che racconta che “l’estate ripiegherà il suo miracolo/ come una donna la gonna/ o i sacerdoti ripongono i simboli/ quando il sacramento è finito”. Ce l’ha detto ancora Takano: “Anche stamani/ sono soltanto il bosco di bambù/ e i fiori bianchi di magnolia/ che vedo”.
Ma tu vuoi che un ministro alle prese con il dilemma dei banchi ieri e quello della presenza e dell’assenza oggi, possa capire il suggerimento di questi due visionari? Un suggerimento che poi tanto chiaro non sembra nemmeno a me. Andiamo, Giuseppe, ti rendi conto di pretendere la luna? In fondo è Natale e sarebbe meglio starsene buoni, no?
No, mi dice. È proprio il Natale che voglio. C’è bisogno di silenzio e di luce, mi dice. E la poesia ce li insegna. Camminando lungo il corridoio della scuola ormai vuoto mi dice che non gli interessa tutta quella manfrina dei critici che spiegano come molti poeti parlino della luce e del silenzio, facendone una specie di assoluto poetico. No. La luce è necessaria all’apparire delle cose, al loro emergere dal buio, dal nulla in cui erano. È necessaria per vedere la gonna ripiegata dell’estate, i fiori bianchi di magnolia. E il silenzio è necessario per ascoltare il bosco di bambù che cresce. La poesia è questa trasparenza delle cose, è una casa di vetro – dice citando un libro di poesie che io conosco bene e che racconta la vita del grande pittore Pierantonio Verga. La poesia e la scuola sono questa casa di vetro, sono luce e silenzio. In fondo sono anche loro il Natale: la condizione perché il mistero si faccia presente. Immagina un Dio che nasca senza la stella – ma forse erano Giove e Saturno allineati anche allora? – che guida. Immagina un Dio che nasce senza la bocca spalancata e l’estasi della povera gente davanti alla più indifesa delle creature, sotto il fiato del bue, dentro la paglia e lo sporco. Non era più notte, quella notte lì.
E tu immagina la poesia, continua Giuseppe: una fila di parole che si spengono nel bianco della riga che finisce, nel silenzio. E vanno a capo, cambiano direzione. Parole in fila verso chissà quale mistero. Che illuminano cose altrimenti perdute e ora vive. E noi con loro. Un presepe, in fondo.
“Forse noi siamo qui per dire: casa/ ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra/ al più: colonna, torre… Ma per dire, comprendilo bene/ oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,/ nell’intimo,/ Mai intendevano d’essere”.
Ce lo dice ancora Rilke: celebrazione della Presenza, trasparenza e custodia della Presenza. Stare nella poesia significa stare dentro l’essere continuamente rivolti a ciò da cui questo essere è fondato. Significa nascere insieme, diceva sempre Takano. E – mi domanda, finalmente con un’aria meno severa, Giuseppe: non è mica la scuola? Non è mica il Natale?